Maternità

Meno male che

L’HAI IMPARATO DA TUA MADRE, A LAMENTARTI COSÌ BENE. IO UN PO’ MI SALVO CON L’AUTOIRONIA, MAGARI DOPO T’INSEGNO PURE QUELLA

 

Mi sto abituando a questionare un sacco di cose. È un bene, diresti, sapersi mettere in discussione. Solo che a discutere sempre si fa un gran brusio. Un formicolare insistente che è come pixellizzare la vita. Diamine anche un aspetta, arrivo, diventa oggetto di dubbi.

Non credere che mi faccia felice, che mi renda salda, alta, sbeccarmi di continuo, smangiucchiarmi le certezze come le unghie a scuola. Ma è pur vero che voi siete un po’ quello che vedete in me.

Non è mai facile, in un rapporto, conoscere i confini. Capire dove finisce il mio dito nell’acqua e dove quello che vedo sotto la superficie è intimamente vostro, ché forse quei cerchi, quei girini che vagabondano, andrebbero lì uguali, forse io disegno così poco sui vostri specchi d’acqua.

Ma siamo anche eco. Gli uni degli altri. Da mesi hai preso quest’abitudine di chiamare “sfortuna” ogni inezia. Vaghi per casa come un vecchio burbero, indispettito, sono proprio sfortunato! Nove anni sono un momento delicato, potrei dire. Nove, otto, uno, quindici. Quale momento non è delicato, figlio mio? Dio santo,

crescete così rapidi e siete, ognuno, una tale rivoluzione ai miei sensi, ai sapori e alle scommesse che le madri si fanno di nascosto nelle lenzuola delle notti.

Però mi rivedo. E devo dirlo. Vedo me sveglia, arrivare in cucina: – Ciao, sì, no, non ho dormito.

“Non ho dormito” è una frase cult. Con “un cazzo” o senza. Perché ho una pancia ribelle da trent’anni, perché somatizzo anche i malumori dei vicini, perché sono sensibile a ogni variazione di clima, temperatura, respiro mio o di vostro padre. Perché penso troppo. Perché da mesi ho l’ipertrofia dei turbinati. Va’ che parola fica, che definizione da manuale della medicina. Ho l’ipertrofia del cuore, io.

Mi basta che le foglie dell’unica pianta sopravvissuta in giardino abbiano la forma a cuore e sono già risalita dalle mie nebbie padane. Sono già felice, scodinzolo. Però appena mi alzo è difficile che sia un sorriso, quella forma che ho sulla faccia. Men che meno un cuore.

Mi basta che in autobus una signora accetta il posto che le offro e non dimentichi un grazie antico e sempre nuovo, mi basta che magari mi attacca bottone e poi quando una delle due scende un po’ ti dispiace. Però mentre aspettavo l’autobus maledicevo quell’autista che chissà cosa sta facendo, chiacchiera dei risultati del calcio della domenica, e a noi fessi ci tocca aspettare.

Mi basta che mi venga una buona idea, la voglia di cantare uno dei miei pezzi preferiti. Mi basta che stasera non vi siete ammazzati di spintonate. Che ho convinto Isabelle a mettere in ordine giocando. Però un momento prima magari ho attraversato il salotto lamentandomi con vostro padre, troppo disordine, e poi adesso viene l’inverno, ho scritto un pezzo scarico, ho perso lettori.

Così ti ho preso accanto a me, stasera. L’hai imparato da tua madre, a lamentarti così bene. Io un po’ mi salvo con l’autoironia, magari dopo t’insegno pure quella. Ma intanto.

Intanto non è sfortuna non andare in bici oggi, dover spegnere a un certo punto la tv o il pc, annoiarsi, aiutare a sparecchiare. Non è “sempre io, sempre a me.”

E mentre te lo dico le parole che ti do si mettono un po’ in mezzo, tra le tue gambe alla mia destra, e le mie. Mentre t’insegno un gioco mi metto in prima fila, e forse è proprio questa l’incredibile rivoluzione: imparare insegnando.

Proviamo a vedere cosa succede accanto a tutte queste “sfortune”: “meno male che.”

Non eri seduto al finestrino in macchina, meno male che ci sei stato al ritorno. Non sei stato in bici, ma abbiamo fatto altre cose. Hai beccato per due giorni le edicole chiuse, meno male che alla fine hai trovato le carte Adrenaline di cui ci hai chiesto fino a sfinirci. Hai la festa del tuo amichetto, domani. Facciamo il pic-nic in salotto, per cena. Devi fare i compiti… Meno male che venerdì eri assente e i quadernoni sono rimasti a scuola.

Non sono serviti mille rimproveri quando monti. Forse bisognerebbe rafforzare il versante buono, anziché arginare a forza quello impervio.

– Mi sa che tu e io dobbiamo allenarci un po’, in questo gioco.

Lui rideva e le sue gambe erano diventate morbidi giunchi, tutti addossati alle mie.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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