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I beffardi

Made in China

PRIMA CI VAI PERCHÉ COSTANO POCO. POI CI TORNI PERCHÉ GLI OGGETTI ACQUISTATI DURANO POCO. E POI CI VAI DI NUOVO, PERCHÉ COMUNQUE COSTANO SEMPRE POCO.

 

Ho un rapporto conflittuale col made in China.

Innanzitutto vorrei capire perché agli ottimi involtini primavera hanno sostituito manicure di dubbia igiene e tenuta, negozi high tech ad alta frequenza (cinque per km), parrucchieri di incognita riuscita e bazar di sicura inaffidabilità.

Poi di tanti stranieri che vengono e in men che non si dica coniugano i congiuntivi, i cinesi rimangono ancorati a un alfabeto che consta all’incirca di sei lettere: cinque vocali più L. Con quello declinano tutto.

A complicare un rapporto piuttosto difficile e alquanto nostalgico dei tempi di involtini e pollo al limone, l’ultimo acquisto made in China: un anello. Nuziale. Mio fratello ha sposato una donna cinese. Il che rende un po’ meno elegante una serie di espressioni usuali, del tipo: “È un lavoro cinese”, “Ma sì, è fatto in Cina”, “Cosa vuoi… l’ho preso dai Cinesi”.

Va poi detto che questi personaggi non spiccano per simpatia né per garbo.

Eppure come soppiantano i negozi nostrani con le loro attività e vetrine, così s’insinuano nelle consuetudini creando sottili assuefazioni. Prima ci vai perché costano poco. Poi ci torni perché gli oggetti acquistati durano poco. E poi ci vai di nuovo, perché comunque costano sempre poco.

I miei figli stanno crescendo a scarpe cinesi. Tanto per dire.

Una spanna e tre dita per largo: misuro le scarpe di Patrick per comprargli dei sandali. L’altro acquisto improrogabile è quel flaconcino lunghissimo di bolle premio per le pipì di Isabelle. Dice che c’è anche viola. Lo vuole viola, sta volta. E andiamo.

Il primo piccolo scompenso arriva dal solo flaconcino rimasto: è arancione. Ma ho modo di gloriarmi per un imprevisto scatto di maturità quando la petite con fare nobile incassa: – Va bene, alloa le pendo a-ancioni.

Inforca con leggiadra autonomia la scala mobile, mi precede squittendo e brandendo il suo trofeo. Tra vestiti dalle tette imbottite (cui mi riprometto di fare un pensierino), reggiseni sportivi (anch’essi debitamente rinforzati) e vasi di dubbio gusto e fiori indubbiamente finti mi areno sulle richieste di una signora nostrana: regge una gonna anch’essa di dubbio gusto e di pelle indubbiamente finta, nera e bombata come un grande sacco della pattumiera che soffre di aerofagia. Un vantaggio dei bazar cinesi – va detto – è che è il solo posto dove non mi scambiano per una commessa. L’età che avanza fa il resto. Così quella mi approccia mi scusi, chiedo a lei, secondo lei è bella questa gonna?

– Non saprei. Se devo dirle la verità fa schifo. Per i miei gusti no, insomma a me non piace.

Mi osserva perplessa, i denti alternati a spazi vuoti. Un po’ come il nostro stesso dialogo. Ripeto con cautela.

– Dipende per chi è.

Non risponde, dice grazie, mentre Isabelle le dà una spadata entusiasta con le sue bolle ancora chiuse.

I sandali arrivano al massimo al 36, che va anche bene perché a me serve il 35. Basta verificare con la misura infallibile della mia mano: una spanna e basta. E le tre dita? Perché l’altro problema, quando vai “dai cinesi”, è che non solo i prezzi sono piccini.

Isabelle entra in ogni rella, dice mi faccio la doccia e ride. Io sfoglio abitini mentre lei parla e stringe la mano a tutti i manichini. Ripenso a quei sabati che gli acquisti li facevo al mercato di Papiniano, oppure in qualche boutique sui navigli, e decido che si può vivere anche senza sciogliere l’equazione “mamma che invecchia=cosa me lo compro a fare un vestitino?”, poi però cado su un pantalone di cui avrei in effetti necessità, e nonostante la scarsa lunghezza (sempre per il problema delle taglie cinesi) mi affido al camerino.

Vieni, Isa, dentro, anche tu.

Lei ride eccitata dicendo andiamo in ascensore. Io rido e basta leggendo un persuasivo Made in Italy. (Che è come tornare abbronzati dalle Maldive perché hai preso il sole nello scalo a Roma.) La luce poco spudorata e incapace di rilevare i solchi cellulitici mi convince all’acquisto (un’altra astuzia made in China?).

E siamo in cassa: venuta per dei sandaletti e un flacone di bolle viola pago un pantalone italiano, un flacone di bolle arancione (che poi scopriremo rotto: ecco perché era rimasto solo quello) e un porta oggetti per il bagno che so già impossibile da collocare ma che mi accordo come la botta di vita della massaia media.

La signora del sacco di mondezza è davanti a noi: ha ripiegato su un set da sei spugnette per i piatti.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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