3
Altre Verità

Speciale covid e Vita – Un anno

– Tre puntate per scavalcare la pandemia e riportarci dalla parte della Vita


NESSUNA GUERRA È PIÙ DURA DI QUELLA CHE PORTI DENTRO

 

Un anno fa, in questi giorni, gli occhi di tutti erano sui TG. E mio figlio ballava in mutande per il salotto.

«Scuole chiuse per emergenza Covid».

Ho un video, lui che si sbraccia, muove in quel modo rigido le braccia come shangai. Però è felice. I bambini sono sempre felici di non andare a scuola. Non l’abbiamo capito, che felicità e scuola dovrebbero stare dalla stessa parte, nello stesso cuore leggero dei piccoli.

Una settimana. Una vacanza inattesa. Genitori impacciati, problemi logistici, seccature. Qualcuno, solo qualcuno, cominciò ad avere paura da subito.

Un anno fa, in questi giorni, cominciava la più epocale battuta d’arresto di scuole, lavoro e civiltà.

Nella nostra libreria un libro della Pimpa segna un ritorno mai accaduto: era il libro della biblioteca dell’asilo. L’ultimo anno di asilo di mia figlia.

Le settimane passarono e, soprattutto lei, cominciò a piangere tanto. A cacciarsi negli angoli più solitari della casa: erano un rifugio? Erano la traduzione corporea dell’isolamento? E mentre molte madri si ostineranno a dire che i loro figli stanno benissimo, io osservo. Scrivo. Mi batto. Perché sentirsi impotenti è qualcosa che difficilmente sappiamo gestire.

Forse, non ho fatto molto meglio

di tutti quei figuri che hanno trovato come unica soluzione il divieto. L’eliminazione. Degli spazi aperti, delle scuole, dei bambini, dei parchi, delle conseguenze psicologiche. Non ho fatto molto meglio: abbiamo tutti risposto a un istinto di sopravvivenza, lottato contro l’impotenza. Gridato, contro l’impotenza.

La stessa morsa ha afferrato chi gloriandosi della propria diligenza e ossequiosa osservanza non è più uscito di casa. Nemmeno quando poi hanno aperto le carceri. E si usciva piano, fuori i papaveri cantavano, ma noi si beccava come uccelli beccano vermi non propri. Come rubassimo.

Siamo restati in casa oltre cinquanta giorni. Le città diventavano vergini in attesa di passi, di piedi: del mondo.

C’erano spettacoli che proprio nel loro meglio non potevamo vedere. E che se avessimo visto, avremmo perso. Per la legge del paradosso.

Gli inni alle finestre hanno bagnato guance e alzato bandiere per un po’. Poi si sono estinti. La gente stanca. Sciancata da tutto questo rumore emotivo, da questo cortocircuito.

Medici correvano, affetti morivano, e bambini nascevano senza un padre.
I ragazzini non sono mai tornati a scuola, quell’anno. Mai.
E la vacanza ha smesso presto di essere vacanza.

L’hanno capito man mano, anche i più piccoli a furia di posticipi e incertezze l’avevano capito: «Tanto ormai non ci torniamo più, a scuola».

I grandi li chiamano eroi, questi piccoli soldati diligenti, questi bambini che non hanno scelta. Ma gli eroi scelgono. I bambini sono vittime, non eroi.

Poi c’era chi diceva di non lamentarsi: «Pensa allora se eravamo in guerra». La gente trova la propria personale religione per affrancarsi dalla difficoltà: fa la gara con chi sta peggio. La vita, diventa la gara di chi sta peggio. E forse è questo, il guaio di tutto il mondo:

pensa come girerebbe se facessimo la gara a chi sta meglio, a chi è più libero e felice, a chi può dare un soldo d’amore in più di ieri?

Invece abbiamo scelto la guerra. I mitra sono i mezzi di informazione. Le case le trincee. Abbiamo quarantene e coprifuoco, zone colorate definiscono cosa puoi fare e quando. Le mascherine tentano di difenderci da una paura che però arriva da dentro.

Qualcuno parla di nuova normalità, perché dire guerra gli darebbe fastidio. Deve cullarselo un po’, quel cuore fradicio e sfinito, deve dirsi cose belle.

Ma le cose belle, quelle vere, sorridono sotto i divieti che abbiamo imposto, sotto le mascherine che neonati e bimbi imparano come parte del corpo umano, sotto questa tensione esangue a sfuggire alla morte.

Sarebbe da scoprire che ognuno ha già la sua ora incisa nel granito dei tempi. Pensa che buffi, siamo, pensa quanto ci affanniamo.

Le cose belle non sono quelle che esistono «nonostante», o sotto quelle che chiamiamo «brutte»: le cose belle sono lì, e sono sempre, scampate a nulla: assolute. Se decidi che vuoi la Vita anziché la paura.

È passato un anno. Molti bambini nascono ancora da soli, vengono al mondo e non hanno un padre, accanto. Se sono prematuri finiscono in TIN e non vedranno la madre per giorni. Abbiamo staccato la Vita. Credendo di proteggerla, smettiamo di alimentarla.

Molti ragazzini sono in DAD. Si chiama Didattica a Distanza, poi le cambiano il nome perché così sembra un progresso.
Molte persone non hanno più lavoro.
Molte madri hanno perso il proprio perché i figli chi li avrebbe guardati?
Altre madri le hanno accusate di usare le scuole come un parcheggio.
Famiglie non si riuniscono che di rado, igienizzando i saluti.

Non potendo decidere della morte abbiamo deciso cosa sia la Vita e cosa sia l’amore.

È passato un anno e io vorrei solo una cosa: che noi smettessimo la presunzione, l’arroganza. Non ne abbiamo bisogno: siamo già, «grandi». Siamo già quella stessa Vita misteriosa e sublime che crediamo ci sfugga.
Nessuna guerra è più dura di quella che porti dentro.

Pensieri rotondi

 

[Grazie a ICY and SOT per la foto incredibile, per il loro lavoro, per la loro voce.
Thank you ICY and SOT, for your voice and work: I tried reach out for you on FB messenger but had no reply. Hope you are back to me sometime: should I remove your pic feel free to tell me. With immense gratitude.]

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

Commenti Facebook

Commenti 3

  1. Mamma Avvocato

    “La gente trova la propria personale religione per affrancarsi dalla difficoltà: fa la gara con chi sta peggio. La vita, diventa la gara di chi sta peggio. E forse è questo, il guaio di tutto il mondo:

    pensa come girerebbe se facessimo la gara a chi sta meglio, a chi è più libero e felice, a chi può dare un soldo d’amore in più di ieri?”
    Ecco, è questa l’unica gara che vorrei fare da un anno a questa parte e quello che ripeto ogni volta che mi dicono: perchè sei giù? Di che ti lamenti? C’è chi sta peggio! E allora? Io non voglio paragonarmi a chi sta peggio, non voglio accontentarmi. Voglio cogliere il bello che c’è, non dare nulla per scontato, questo sì. Ma non per questo farmi bastare ciò che ho, sopravvivere. Voglio vivere. E più di tutto, vorrei che potessero farlo i miei figli, restando proiettati nel futuro come solo i bambini sanno fare, anzichè dibattersi nell’incertezza di ciò che potranno o no fare, anzichè dire loro che “no, adesso non si può. Lo faremo quando sarà andato via il virus”.
    Perchè loro lo hanno capito benissimo che potrebbe non succedere o succedere chi sa quanto e vogliono vivere ora e domani, non “forse domani”.

    1. Post
      Author
      Maddalena

      Sai, ognuno viva come vuole, se vogliono vivere nella paura, sono loro che sopravvivono, anzi dovrei dire “sottovivono”. Il problema è che qui ne paghiamo le conseguenze tutti. Oltre alle mille cose che non si possono fare, io provo dolore anche davanti a quelle che si possono fare: vedere in giro mamme con la mascherina e un bebè per mano, in braccio, nel passeggino… Ieri eravamo a un parco con animali nei loro lotti recintati. Ci guardavano, probabilmente vedevano la follia di tutti questi umani imbavagliati, era pieno di gente, la gente esce per fortuna, va ad azzannare questo inizio di primavera. Ma tutti con la mascherina anche se lontani gli uni dagli altri, e all’aperto. I bambini crescono credendo sia normale. A me queste scene straziano. D’altro canto, se ci lasciamo prendere dallo sconforto, ci annulliamo ancora di più. Ti abbraccio.

Lascia un commento