I beffardiMaternità

That was my time

L’AMORE NON SI MISURA MA IL TEMPO SÌ

 

Mentre Sarah crea un gioco nel quale spende parole a secchiate per dire chi vince e nessuna per illustrare come si gioca, io vedo aleggiare davanti agli occhi una semplice frase tagliente:

THAT WAS MY TIME.

La petite fa il suo pisolino, Patrick è in camera disperso in qualche lettura o nei suoi nuovi indovinelli (credetemi: alcuni sono quasi buoni e meritano un riso spontaneo), e io ho promesso da due giorni che giocavo con Sarah.

Memory? No.
Domino? No.
Carte? No.

Da piccoli ripieghi sui sempreverdi, quei giochi a sonagli oppure un libricino dalle pagine ingrassate e lucidissime a prova di bebè, ché così intanto tiri su le gambe, svacchi un po’ sul divano, e fai pure l’illustre figura di coccolare il figlio, quando la vicinanza è in realtà data dall’esigua larghezza del divano.

Ma a sei anni c’è un brulicare di cose, alcune chiare come intenzioni, altre annodate come i dreadlocks che le abitano in testa ormai da anni, dovuti a insondabili manovre notturne sul guanciale. E adesso siede bianchissima dall’altra parte del tavolo promesso, cui ottempero con 30 ore di ritardo. Ma il gioco l’ha voluto inventare lei, in tempo reale.

That was my time è il solo tempo che vedo io: questo che la sua laboriosa incertezza consuma minuto dopo minuto. Quello del sonno di Isabelle, la mia occasione di “mio”. E così, mentre sorrido cercando il capo e la coda, ripenso a quanti my time ho dato via.

Non per recriminare.

Per sbattere la tovaglia dei sensi di colpa. Perché alla fine ci facciamo un paiolo così, e poi la mano va sempre lì, a grattare quell’unica crosta rimasta sulla tovaglia a scacchi.

That was my time quando finalmente mi appisolavo e invece il figlio s’impennava in un risveglio improvviso (ho detto “improvviso”, non “imprevisto”).

That was my time quando alla tv ho dato via Grey’s Anatomy per Masha. Quando il pranzo è diventato una barretta Enervit perché di più non mi era concesso. Oppure il giro per la contrada si sbriciola(va) inesorabilmente in un Triathlon tra parchi giochi.

That was my time quando li ho nutriti tutti e tre, abbeverati tutti e tre, mi siedo a tavola e qualcuno dal cesso mi chiama. Quando ho giocato e risposto a tutti i figli che ho, inclusi quelli dei vicini, mi siedo con un libro ma qualcuno ha rovesciato un litro di latte.

That was my time quando mi dedico alla sola attività fisica possibile – venti minuti di cyclette in salotto – e uno via l’altro decidono di sgozzarsi costringendomi all’arbitraggio (col fiato corto).

That was my time quando vanno a scuola e posso finalmente pensare solo alla più piccola, e ho già un palinsesto in mente, che suona all’incirca così: mi alzo, li preparo, vanno, scrivo, poi sveglio Isabelle, gioco un po’ con lei, poi ci facciamo una bella camminata al laghetto, poi pranziamo e magari mi appisolo con lei, cucciose cucciose. E invece mi chiamano da scuola.

That was my time quando febbricitante volevo vedermi Friends sul divano e invece leggevo quel cazzo di libro di gomma imbottito.

That was my time quando loro sono in vacanza e io cedo gli ultimi brandelli del mio in un gioco che alla fine anche lei mi dice: “Mamma mi stufo.” Ecco. E così giochiamo a Shangai con le bacchette del giapponese. Ma sempre my time è.

Il cuore non lo vede nessuno, l’amore non si misura, ma tutti i tempi che vi ho dato, figli miei, quelli si possono contare. E contano eccome.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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