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Maternità

Stlüt: passo e chiudo

OGNUNO VIENE DA UN VIAGGIO, DA QUALCOSA CHE GLI PRUDE DENTRO

 

In qualche modo siamo partiti.

Dopo una staffetta tra pronto soccorso, pediatra, farmacie. Dopo quella maestra nel sole dell’altro giorno: “Sì, va in bagno ogni venti minuti. E poi non mangia: niente.”

Perché, Sarah? Abbiamo dei modelli interiori, anche noi, anche le madri. Non li conosciamo fintanto che reggono, finché non li vediamo scheggiarsi. Allora sulle prime si inciampa in qualche monito, mangia! Smettila! Poi sale la nebbia della preoccupazione. Ora che Patrick mi dà meno pensiero: vi siete passati il testimone. Ma tu. Eri quella facile, mangiona, dormigliona, autonoma. E, soprattutto: viva. Sempre, con quelle sorgenti dentro che non puoi credere a nessuna steppa.

La cistite non è saltata fuori, da quello stick che ti hanno fatto. A scuola rifiuti ogni cibo proposto dalla mensa ormai da settimane, mi metti in palmo un tozzo di pane, quando vengo a prenderti, mamma questo mi è rimasto, del solo morso che hai dato. Un assaggio di pane e un’albicocca, di solito mangi questo.

Partiamo dopo le prime due dosi di antibiotico e dieci puntate in bagno. La macchina piena, seduti dietro, voi, tu al finestrino. La prima ora in un pianto che implora, cui non basta la mia mano che attraversa i sedili, la musica con le vostre canzoni, lo slancio. Al primo vento che spettina l’autogrill ti riprendi, e io traballo mentre un po’ riaffioro: la nausea forte che lamentavi si placa, studiamo pacchi giganti di caramelle agli scaffali, anche l’urgenza del bagno per qualche minuto si addomestica. Lo sai qual è il bagaglio più grande? Quello che riempie il baule, che mi porto dentro a ogni sosta? Noi: ho bisogno di mollare i pensieri come quelle bestie sull’autostrada nell’afa. Legate a un guardrail. Mollo lì tutto. Partiamo e siamo da capo, così leggeri che la macchina sembra che vola.

La seconda tranche va un po’ meglio. Comincio quell’altro modo che ho di credere a un potere che non ho: mi impongo. Le soste si fanno contate, tu puoi resistere, la nausea è solo perché hai paura. L’hai visto, l’abbiamo visto. Si può fare.

Ordino il panino più facile che posso, arrivo con la mia rincorsa, il ragazzo si offende, buongiorno, eh?! mi apostrofa.
– Buongiorno, sì, scusi.

Forzo il mio sorriso migliore. Imparo due cose. La prima: ha ragione, mi sono schiantata su di lui. La seconda: ha torto, ne ho anche io quando qualcuno è ruvido, quando non sta al mio tentativo di fare la simpatica. Ognuno viene da un viaggio, da qualcosa che gli prude dentro. Magari è solo stronzo, ci sta. Magari, però, ha in tasca lotte e paure, e le mani tese che sformano sembrano dita puntate.

C’è sempre qualcuno che ci vale da scusa: quel ragazzetto con gli occhiali rotondi come pianeti è stato il mio atterraggio lunare, da lì mi sono vista minuscola, fluttuare in un’aria rarefatta.

Una terza tappa, è l’ultima, dico. Ce la facciamo. Sull’ultima tratta le basta quel finestrino abbassato, mamma senti che mani fredde, lo sfarfallare dei capelli che cantano con lei. La valle che s’apre come s’apriva quando venivo qui da ragazza, solo che allora si veniva al tramonto, il sole infilato nella V a fondovalle, i prati e le donne gonfie di fieno, noi nella monovolume per l’estate lunga due mesi. Invece piove. L’avevo detto, a Isabelle: “Sai come facciamo a sapere quando siamo arrivati? Quando vedi che piove.”

La signora ci accoglie in un vestitino che simula il caldo, la casa è bellissima. Appare subito chiara la mancata corrispondenza tra i sette letti e i cinque guanciali, i cinque posti a tavola, un frigorifero meno capiente dei frigobar degli alberghi. Ma è fichissima.

Sistemiamo cose, prendiamo tempo e fiato. Scrivo a fatica le date di nascita dei figli per le formalità con la padrona. Vuoto la borsa termica. Quelle date zoppicanti e la dimenticanza del ghiaccio nella borsa sono cimeli di una bestia che un po’ ancora m’insegue.

Facciamo la spesa incantandoci dinanzi a scaffali lunghissimi di conserve e di miele, Isa col suo carrellino, Sarah balla dentro a una foto. Finché abbassano le luci, “si chiude”. Allora raccattiamo le cose più urgenti, ci sparpagliamo, tu il sapone, io l’olio e lo zucchero, i bambini hanno paura che ci chiudono dentro. Saldiamo i consueti 80 euro montanari per due magri sacchetti con cui non si cena, gli promettiamo il ristorante. E cominciamo il giro in macchina da un locale all’altro: la sequela senza fine di STLÜT (che non è una forma di rutto tirolese). Il bello del fuori stagione.

Mathias osserva il codice stradale ad ogni ri-partenza e ogni stop con ostinato e inutile rigore, non c’è un cristiano, tolti quei quattro tori in maniche corte fuori da un bar che fa anche pizze. Chissà perché tutti lì, è il luogo di ritrovo. E poi finiamo lì anche noi: elemosiniamo tre pizze take-away sotto una pioggia ormai spudorata, e tutto sommato va anche meglio così. Seduti al tavolo in casa.

È tardi, è buio. Sarah va e viene, come la schiuma del mare. Quando va rimango secca, magari anche seccata. Quando viene mi accorgo del buco che aveva lasciato, della rabbia che si prende il posto della preoccupazione perché preoccuparsi svilisce, sfibra. Invece la rabbia ha quel vanto lì, di farti credere forte.

Isabelle guarda dalla finestra sbieca del tavolo su cui ha già fatto almeno sei disegni e scappellato pennarelli a dozzine: “Ma come facciamo a tornare a casa, che è buio?”

Non le è chiaro che adesso stiamo qui per qualche giorno. Che adesso chiudo tutto, le tende e le paure. Buona vacanza: STLÜT.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 3

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      Maddalena Capra Lebout

      Per adesso l’antibiotico non sta facendo effetto 🙁 Siamo sempre ad alzate notturne (per fortuna si alza e fa da sé) e tappe frequenti nella giornata, lamenti e paure (sue). Non sono spensieratissima, ma mettiamola così: meglio avere qualche pensiero in un posto straordinario, che avere gli stessi pensieri ma in città, nell’afa. Grazie Carmen :*

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