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Maternità

Se una margherita può bastare

Hai preso quest’abitudine di dire «che palle».

I figli assorbono. In un certo istante del loro viaggio, lo zaino in spalle, acciuffano quello che capita: non più e non solo attorno al tavolo di una cucina, ai cuori dell’ennesima tovaglia cerata spennarellata dalle ragazze. Non solo da quei punti scuciti che lasciano vedere i fili di genitori imperfetti. Alla nostra inesattezza si somma quella di molti altri genitori, i loro punti scuciti, i figli che vi sono compagni sui banchi di scuola o nel calcio all’oratorio, e prendete su, come viene. Scoprite l’immenso sollievo che si prova sbattendo una porta, e poi udendo il campanellino di quella chiave che cade. Lo sfogo di scagliare a terra i cuscini del divano e lasciarli lì, firma del gesto: al presunto affronto della vita opponete il vostro. La provocazione cerca di ristabilire un podio che qualcosa o qualcuno vi ha sottratto vostro malgrado.

Ma nessuno ve l’ha mai tolto. È solo crescere: questa ingiustizia che vi vibra nei gesti come irreparabile.

Allora noi ci apriamo in delicate operazioni chirurgiche: abbiamo imparato l’umiltà dell’adulto, abbiamo perso da tempo la forza energica e demolitrice dei sensi di colpa. Sappiamo bene che non ogni vostro sfinimento è frutto diretto del nostro agire. Eppure cerchiamo: se non l’errore, la soluzione. Scaviamo come i bambini nella sabbia, l’ennesima ondata ha sfaldato il castello.

Ieri ti sei inchiodato sul pranzo: non era accettabile, alla tua testa biondo cenere, che avessi cucinato gli gnocchi. Non era accettabile che tuo padre e io abbiamo sorriso. Ti senti preso in giro per poco, proprio tu che gli altri li sfotti spesso, che t’infili storto quando riprendo tua sorella, e vedendo che la innervosisci sogghigni. Cos’è successo, poi? C’era quella festa in piazza, Isabelle ha scandito un’ora esatta chiedendo quando sono le tre? Non le bastava alcuna delle nostre risposte, si è messa a palo qui accanto, il metronomo tedioso della sua richiesta.

Tu avevi già deciso che non saresti venuto. Solo che ti sta scomoda questa età: vorresti liberarti e poi sembra che le gambe cedano.

– Non voglio stare a casa da solo.
– Amore, noi andiamo. Se vieni mi fa piacere.

Ingoio: hai ancora il timbro acuminato, sei un bastoncino di ragazzetto, sei un filo d’erba, eppure tuoni. Da qualche parte, lo so, c’è un cuore di pongo. Nascosto sempre meglio. È a quello, che punto, per fare mansueta la voce. A quei nostri momenti di crema sulle mani la sera, a quelle screpolature che le dita lisciano in danze ripetute, e vorrei lisciare il torto di cui ti sei convinto dentro. A quelle risate che ci spalancano e si diventa nudi: due bocche giganti che gorgogliano e lacrime agli occhi nei sussulti gai.

Alla fine vieni, la felpa chiusa stuzzica altre smorfie, infili la giacca, ti allacci alla mano di tuo padre e borbotti come un ubriaco. Su un albero tenti la giocosità che ancora ti è propria in questa età, in questa terra di confine. Solo che la testa urta un ramo, anche lì hai preso male le misure. Un altro affronto: – Tutte a me, sono sfortunato, è tutto una merda! Che schifo!

Noi, della nostra generazione, certi guizzi li abbiamo raggiunti ben più avanti. Forse non eravamo così arrabbiati. Forse avevamo più timore dei genitori. C’era un veto interiore, a certe manifestazioni.

Se ti consolo dura un attimo, è un piccolo ossigeno e poi torni nella tua apnea. Se ti rassicuro sulla tua meraviglia non ti lasci convincere. Se ti riprendo ti spacchi. Se ti ignoro rivendichi che non ti ascolto nemmeno.

Alla fine ci sali, su quell’albero. Gridi per una formica rossa, ti dico che non fa niente, ribatti tanto sono io che mi faccio male: – Eh, sì, poi mi portate in ospedale, che bello!

A volte vorrei un corpo di vetro, come una grande finestra: tu ci guardi dentro e trovi un cuore che sguazza. Uno intero, tutto per te. Ma forse nemmeno questo basterebbe.

Finché in un prato come un mare di margherite fai due passi con le sorelle. Torni. Mi dai una margherita col gambo tozzo, che hai strappato pensandomi. Chiedi di fare la pace: – Tieni.

A metà tra il dono d’un bimbo e l’omaggio d’un cavaliere, quel fiore ci somiglia.

Ce ne sono tantissimi, li vedi. Un migliaio di occasioni.

Da lì, passerai ore a giocare nella festa in piazza: attrezzi mai visti, trampoli, giochi di legno da tavolo, buffi tricicli. Non vorrete più venire via. E chissà che margherita dopo margherita tu impari la pace, il bene che ti voglio. E la tua meraviglia.

 

[Foto di Mathias Lebout]

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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