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Altre Verità

Scarpe basse

Doveva essere all’incirca questo periodo qui. C’era quel cazzo di Salone del Mobile. Per una piccola neolaureata fuori corso, senza soldi né impiego, e – ora – anche senza una mano d’uomo lungo i fianchi, era roba dura. Salsedine di quella che ti si incolla e i capelli per un po’ non volano nemmeno con la bora.

Gli ex colleghi avevano già trovato una loro collocazione. Chi grazie a un padre nel settore edile, chi grazie a un favore sessuale. Ognuno tirava linee in autoCAD in qualche studio, qualche openspace in quei grandi ventri disabitati in periferia, abortiti dalla città. Lei saltellava come da ragazzina all’elastico, solo che adesso non c’aveva più quei bei calzettoni di filato a coste, né i mocassini lucidati con lo spazzolino da denti a setole dure. Saltellava con dignità, magari una gonna a tubino che ancora faceva voltare i clacson ai semafori: da un impieguccio a un altro, a smistare carte per il titolare invisibile di turno, in qualche grande azienda, a contratto interinale. E, inutile dirlo, gli ex commilitoni si erano diradati come i capelli di un novantenne.

Solo Amanda, restava. L’amica necessaria.

– Lascialo, non ti preoccupare.

Dondola una gamba accavallata sull’altra, ruota la caviglia e la fa schioccare. Poi impegna le mani nella borsa, traffica, riemerge.

– Non sei sola. Ti porto fuori io, se è di quello che hai paura.

È che a Daria lui aveva lasciato qualcosa. Una sottile appendice che se la tiri poi resta un buco. Come nei maglioni. Devi tagliare al punto giusto, il filo giusto. E Amanda strappava la pellicina di una relazione che forse no: – No, non so, non posso.

– E cavoli, Dà, questi sono solo sensi di colpa.

Le dà una sigaretta, vuoi? To’, Daria cominciò a respirare nel filtro. La sigaretta finì e Amanda sbragava nel suo sorriso più generoso: – Dai che ci divertiamo. Stasera vi vedete? Allora domani usciamo noi due.

Finì come finiscono gli amori di due che hanno amato. Con gli occhi a cavalcioni dell’ultima curva prima che l’altro sparisca. Con le mani tenute ancora fuori dalle tasche sperando in un inciampo delle dita. Comunque finì.

La sera dopo, come promesso, Amanda strombettava sotto quei dieci piani di condominio in clinker. Com’era andata con Simone già lo sapeva: dagli sms della notte, dalla lunga telefonata davanti alla caprese del pranzo, Cavoli, dai, vedrai. No, Simone non l’ho ancora sentito, preferivo sentire te.

Le parve un segno di lealtà, le fece bene questa premura, e poi le fece male: aveva conosciuto lei grazie a lui, e adesso si rimestavano le coppie, Daria si prende l’amica, lui è in panchina.

Rientrò nelle gonne da combattimento, aveva bisogno di gambe lunghissime, competere con quel paio clamoroso di tette che l’amica si portava appresso. Di viso era meglio lei: Amanda aveva un naso troppo rotondo, due gonfiori mal disposti sugli zigomi, i capelli sfiniti da troppe tinte. Però gli uomini vedevano quella: biondo più tette.

Comunque bevvero abbastanza da ridere e smettere le attenzioni oltre il bicchiere. Amanda ebbe una buona cura di lei, a Daria sembrava quando torni nel seno di tua madre dopo una rovinosa caduta. Per un breve solstizio furono quasi invincibili in questi ruoli: una la tana dell’altra. Delle due una tirava sempre un po’ di più, la gonna più su, il pub più lontano, la battuta che riscattava un muso, l’idea antisfiga. La sfiga in parti uguali. Era una forma d’amicizia anche quella. Due pezzi di donna sono inseparabili se trovano l’incastro giusto.

Poi fa come le gambe quando ti alleni male, che una si rafforza, la vita è uno sport impari, Amanda si prese quel tavolo in Piazza Medaglie d’Oro, Daria rimase a firmare missioni con Adecco. Una aveva un giro, ormai, i bastioni solidi dei colleghi. Chissà quante altre Darie si era trovata, ché adesso la chiamava solo con la bocca piena, scusa, sono di corsa, due minuti mentre mangio che poi devo scappare. L’altra non aveva mai il tempo di crearsi un rocchetto di amici fidati. Aveva il tempo di un pasto intero, i ticket restaurant, ma poi finiva in braccio a un vasetto di yogurt, lei, quello, e un cucchiaino rubato ai gelatai. Un giro a fugare piccioni, quando s’alzava la buona stagione.

E fu il Salone. Il grande fermento.

A ben pensarci fu una gran cazzata decidere di vedersi proprio allora. Uno di quegli appuntamenti che partono mesi prima, e poi scusa non posso, e dobbiamo rinviare, e avevo dimenticato un impegno. Mi sono ammalata ti richiamo.

– Vado al fuorisalone. Ci vediamo?

Perché non hai detto no, Daria? Che te ne fotte, a te, di quel design che comanda sorrisi a bacchetta, di tanti fricchettoni compiacenti, di tutti quei crapetti luccicanti di lusinghe? E se è per bere, che te ne frega di farlo oggi o domani, di farlo in quel giro di locali-bene?

E invece le parve l’unico modo per vedersi, finalmente, per smettere di rimandare. L’ultimo contratto era finito, l’ultimo ragazzo era finito, l’ultima scusa per dirsi felice.

– Ok, vengo. Ma vorrei un po’ di tempo per noi, parlare un po’.

Amanda le ha detto alle 18, in Via Tortona. Poi vedrà i colleghi alle 18.30, andranno per showroom. Che cos’è mezzora, Daria? E invece intasca, beve questo gettone bronzeo come una macchinetta, se lo fa bastare.

Sull’autobus le suonò il telefono: – Ciao sono io.
– Ciao Amanda, dimmi.
– Eh, niente, volevo sapere dove sei.
– Sull’autobus, sto arrivando, sono in orario, dai.
– No perché… io sono già qui. Mi trovi dentro allo showroom 31. Coi miei colleghi.

E tu ingoiasti senza ribattere. Raggiungevi la fermata, scendevi, la borsa calava a ogni passo.

Come si entra nudi nella folla in quei sogni adolescenziali. Così, entrò Daria: l’architetto mancato in mezzo a ragazzi fortificati da autostime di ferro. Con quegli occhi di tutti altrove, di tutti creduti addosso, al suo cappottino sciocco e sbilenco, ai tacchi che poi aveva mollato, per camminare meglio sul pavé.

La vede, è ancora più bionda. Le ha fatto questa sorpresa di un tempo loro dato via gratis, senza un pegno in cambio, né una buona ragione.

Ciao, due baci, ti presento Nicola, piacere. Questo è Enrico, lei è Samantha. Ciao.

– Siamo qui coi biglietti da visita, ne distribuiamo un po’.

Daria frugò nelle sue tasche, trovò: la tessera dell’autobus, un fazzoletto di stoffa coi fiori rosa tutt’intorno, e una cicca sputata prima di entrare, ben confezionata in uno scontrino del pane.

Li lasciò fare. Aspettava. Di essere ancora quell’altro pezzo di donna. Quella frattura che poi s’incolla, che poi le cementa.
E gli altri andarono, a un certo punto.

– Andiamo anche noi con loro, o vuoi che andiamo in un altro pub?
– Un altro, Amanda. Parliamo un po’.

Uscirono spingendo nella folla, lei chiese dove, Amanda guardava il cellulare.
– Entriamo qui?…
Sulla soglia si fermò a digitare qualcosa. Daria annuì.
– … Che ho detto a Simone se vuole raggiungerci. Così gli dico dove siamo.

E adesso dovrei dire della faccia che hai fatto, come il viso è diventato un braciere e, sotto, nessuna legna più da ardere. Daria. Che sei entrata. Sei entrata lo stesso. Hai preso una Caipirinha, il culo a stento sullo sgabello troppo alto. E poi Simone poteva non arrivare e invece è arrivato. Non l’avevi più visto. Non volevi vederlo. Starete in tre, le labbra impegnate unicamente a succhiare da cannucce doppie. La musica salvifica mentre bestemmi per questa sorpresa.

Ma questa volta ti cambio un po’, ti fermo lì, con la mano sul braccio di Amanda, che spinge la porta dell’ultimo pub. Da dentro arriva la slavina delle voci, la musica nuota nel buio. Pensi che hai fatto bene, in quelle scarpe basse. Che ti aspetta un bel pezzo a piedi.

– Buona serata, Amanda.

 

Con questo post partecipo al progetto Aedi digitali. Tema della settimana: #sorpresa.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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