Maternità

Quando una madre non basta

Isabelle gioca al domino. Sarah ha il termometro sotto il braccio. Patrick passa in cucina, lo sento che fa quel giro del banco in quel modo, i passi fermi a un certo punto, il ciak al suolo delle sue piante nude s’arresta esatto dove so: sbircia il suo cellulare in carica accanto ai fornelli.

Io invece approfitto di quel mercurio finto all’ascella di Sarah per prendermi cinque minuti.

Ma sono minuti afosi, sotto una cappa di tempo e di testa. Lo sapete, no? Che sto facendo poco e troppo. «Come tutte», direte. Be’, non scrivo per fare a gara con chi ha più commissioni o impegni,

scrivo perché so che anche voi siete piene e a volte si arriva che una madre è un pezzo di tela e se lo tiri lo sfilacci e basta.

Allora mi metto in cinque minuti. Ho fatto settimane sul divano, ma non era mai il mio divano: niente tisane e chiodi di garofano, niente palline di Natale da decorare o folletti alle finestre e poi quella finta neve che spari spray. Era solo il divano delle supposte di Tachipirina e dei piedi di un figlio, e io lì a sfogliare qualcosa, guardare la tv con loro.

Che quando poi guariscono ti sembra come quando bigiavi a scuola. Ti pare che tutta quella libertà la stai rubando, che non sia roba tua.

Come quel pazzo nel film Nuovo cinema Paradiso: «La piazza è mia, è mia la piazza, la piazza è mia!»

Ma non hai il tempo di inebriarti. Perché di solito, lì, esatta e battente come il becco d’un picchio, ti si infila la cervicale, l’emicrania da ciclo, o tutte e due.

E così cominci a essere confusa. Perché, tra i miei impegni, il più ingente è che mi sto occupando di me. Vuol dire coaching, studio, ricerca, ascolto. Vuol dire, per esempio, non decidere: cercare di stare col desiderio, ma quello vero, quello che poi dici «ma come ci sono arrivata?». Ecco, quando ti trovi in mano un libro che non ti sei accorta di scegliere, quando stai scrivendo qualcosa e non avevi deciso di farlo, quando sai che è giusto fermarti e non è il cervello a dirlo ma il corpo… lì sei sulla strada buona.

Solo che ci va coraggio: perché il malessere fisico spazza tutto. Perché il figlio malato spazza un altro po’. Perché il tempo è quello che è. Perché servirebbe un po’ di intimità con me, e non ce l’ho. Perché anche questo studiolo ora è piccolo e anziché sentirmi avvolta e accucciata mi trovo oppressa.

Imparare a fluire un po’ di più sembra cercare di scendere un fiume dove però un miliardo di stronzissimi castori continuano a fare dighe. Non so se mi spiego. Sì, so che mi spiego.

Le mie priorità non sono più le stesse. E, soprattutto, non sono le stesse da un giorno con l’altro.

Oggi sono io. Scrivere. Un’ora dopo è leggere. Un’ora dopo è scappare.
Domani sono i figli. Poi fare qualcosa di nuovo.
La sera magari è leggere ma tutt’altro dal giorno.
Se però ti arriva il fulmine d’una scrittura, allora segui quello, che è come un principe sul cavallo bianco. Non che i principi siano poi il sogno di ogni donna. Ma insomma avete capito: ci salti su. Vai.

Le priorità non sono chiodi affissi ai muri. E non sono i muri su cui appendi, di conseguenza, le tue azioni e attività.

Ma tutto questo si gioca intorno alle emergenze, agli imprevisti, alle eccezioni.
Come un figlio malato. Un mal di testa, un altro figlio malato, uno sciopero.

E così ogni piccola diga di quel castoro è un sassetto che non ti ferma, non pesa sul sorriso, ma conosce le tue tasche.
Finché dopo cinque settimane difficili (e forse anni) ti sembra che nessuno e niente abbia la tua vera attenzione.

Non Patrick, che ora ha lasciato la cucina.
Non Sarah, che ho solo tonificato con un pacco di piselli surgelati sulla testa per far scendere la temperatura.
Non Isabelle, che tira un grido, il domino è caduto.

Io non ho il tempo, da qui, da questo studiolo minimo: «Un attimo!», la aggredisco a distanza. Neanche la cura di andare a dirlo. «Un attimo!» è una frase che non si dice mai, di presenza: è la frase per darci il tempo di essere altrove.

Sproporzionata nelle mie rimostranze. Poi la raggiungo, lei è già buona, ha eretto i tasselli di nuovo, ha fatto la sua costruzione.

Mi pare che ognuno paghi per i limiti di qualcun altro. A tutti tolgo, per dare a un mal di testa, o a chi di loro è malato, o a me stessa.

«Isa, non è per te quel grido che faccio».

Le spiego i sassetti. Svuoto le tasche negli occhi di una bimba di cinque anni. Con parole commestibili, leggere.

E penso che un po’ di amaro se ne va. In quelle mani a pennarello.

Il resto se ne va perché se ho deciso di uscire dal controllo di tutto, allora va bene così: i figli non moriranno, se a volte li trascuro. Se smetto di dover proteggere tutto e tutti.

Se cura smette di fare rima con paura. Se allargo un po’ la linea tra giusto e sbagliato. Se a sera vuoto le tasche. Le scucio e così i sassi li frego tutti.

Se, in fondo, è vero: non basto. Eppure, basto così.

 

[Photo by Jessica Ruscello on Unsplash]

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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