Non riesco a perdonare la primavera per non averci aspettato.
Non so quale sia il dolore maggiore: se la primavera senza noi, quello che perdiamo fuori, o il dolore di stare chiusi. O la preoccupazione per i figli e quello che patiscono, o tutta questa sciagura, le vite che se ne vanno, la colpa di non averle benedette, di averle piante poco oppure troppo. Di aver messo su bare non nostre dolori che ci serviva posare da qualche parte, perché tutta sta storia è più grande di noi. Sulle corone di fiori che non saranno, intreccio una schiavitù colpevole di un suo dolore privato. E poi il suono di un’ambulanza che ribatte alle campane d’una chiesa vana.
Non so quale sia il dolore più duro. Se quello vasto di questo dramma esteso oltre ogni razza, luogo e previsione. O quello sottile eppure profondo che mentre mi è proprio e individuale, nelle liti dei figli divenuti nervosi, nelle inferriate alle finestre insopportabili, nelle notti brevi e in queste solitudini impossibili, somiglia a quello di molti.
Ma non riesco a perdonare la primavera. Per non averci aspettato.
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