Maternità

Buon viaggio

Sono andati.
Settimane di attesa, pochi minuti per cacciare tutto in una sacca rossa: due spazzolini, qualche cambio di biancheria, una maglietta, la felpa. Una traversa per il letto, per questa notte chissà dove.
I due maschi di casa vanno a Parigi.
La casa se ne accorge, più passano i momenti che li avvicinano alla porta: si sente in quel cesto di macchinine, in quel letto sotto le stelline che gli avevo incollato, nel suo leone enorme di peluche. Si annusa in quelle giacche pronte sulla panca d’ingresso, nella metà del lettone che questa notte resta vuota. In quella sacca rossa, pronta, che aspetta.
Siamo una famiglia patetica, noi, abituati a stare maledettamente, squisitamente insieme. Ci separa il lavoro, la scuola, o le malattie dei figli che impongono uscite a turni. Altrimenti facciamo insieme perfino la spesa. Ognuno coi suoi spazi, privati – anche – , nel grande grembo di queste mura, eppure raccolti, sempre, come l’acqua piovana nelle gronde.

Patrick è uscito teso, mi ha chiesto ancora un bacio, composto, a parole e coi gesti, il ditino sulle labbra protruse, gli occhi spalancati a bermi.
“Sarah, saluta Patrick. Dagli un bacio.”
Lei si ritrae, lui avanza: “Allora te lo do io”, come un signorino. Gli darei dieci anni, quindici, non fosse per la mucchetta di peluche che ha stretta tra le mani.
Da giorni era nervoso, non solo sovreccitato: teso, irritabile, perfino rognoso. Di solito queste cose le interpreta Mathias, ci arriva subito, col cuore spalancato come un velluto, sensibile alle variazioni di pelle. Invece sta volta l’ho capito io. Capisco le paure, io. Quelle inespresse, chiuse dentro, a pressione, che fuori borbottano rabbia, quasi fossimo “cattivi”.
Patrick ha sentito la mia empatia, gli è arrivata, se l’è presa addosso, l’ha infilata in insoliti, insistenti “voglio la mamma.” Nel bacio che non basta mai, qui fermi sull’uscio della novità.
Gli ho proposto di cercare un pupazzo, scegliere tra quelli in realtà da sempre dimenticati e consegnati alla polvere sulla mensola sopra il suo letto. Lui ha voluto quella mucca bianca e grigia. Ora va con lei.
Nell’altra mano un sacchetto che gli abbiamo preparato: “Cosa ti porti che ti rassicura? La calcolatrice, una macchina, un pupazzo…”
“E il panino” ha aggiunto. L’abbiamo preso ieri, tenuto chiuso finora, in attesa del viaggio.
Ho segnato queste cose su un post-it, gli ho fatto la lista: lui l’ha guardato fiero e sorridente. Si è sentito sicuro in quell’elenco giallo.

Ora è là, la meraviglia degli spazi grandi dell’aeroporto, il viaggio speciale con papà, la paura legata stretta stretta con lui al sedile, le luci della pista, il motore che rulla. L’attesa.
Le luci, poi, che svaniscono in basso, il rombo del motore si placa, tutto s’acquieta, molla la presa di papà, gioca finalmente sulla magia del tavolino a ribalta, con la sua macchina e la calcolatrice.
Vorrei essere una molecola qualunque di quell’aria per guardarlo, vedere i miei due uomini in braccio allo stesso cielo, verso la Francia, che ci ha visti nascere come coppia. Partecipare anch’io al piccolo grande viaggio, del velivolo grigio e di quel musetto pallido; guardargli le emozioni che lo traversano, cavalcare, con il mio piccolo principe, la sua timida fibrillazione.

Sarah gioca con le pedine dei numeri che le ho recuperato dal ripostiglio: consolazione non a una Parigi negata, ma a quella mucca sciocca e nemmeno sua che improvvisamente le diventava cara.
Io gironzolo, sistemo cose, ascolto le due emozioni figlie di questo weekend insolito che sa di speciale: la mancanza di Patrick e l’intimità sola con Sarah.
Restiamo noi, due donne e mezzo: io, Sarah, la piccola in grembo.
Il post-it con la lista, sul tavolo.
Lei che lo guarda con desiderio e chiacchierando un po’ con me, un po’ con le sue bambole alla maniera dei bambini, reclama un sacchetto con le stesse cose dentro.

Buon viaggio, amore. Siamo sincronizzati: per cena panino, calcolatrice, pupazzo e macchina.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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