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Maternità

Il primo giorno di scuola

La cartella è grande, i suoi spigoli gli sporgono dalle spalle come timide ali chiuse. Com’era grande l’ovetto, uscendo dalla clinica, lui che ci si perde dentro. Il lettino con le sbarre, le prime volte. Le mie braccia, perfino quelle, intorno a un corpo che ancora non conosce il mondo. Perché è così, che tutto il nuovo comincia: grande.

Patrick ha aspettato questo giorno per mesi. L’abbiamo atteso tutti. I suoi occhi viaggiano lungo la strada, rotolano biglie di pensieri che non afferro. Si è lasciato fare due foto da papà, papà con la camicia bella, uscendo di casa, bella anche io, il trucco che riservo alle grandi occasioni, una maglia fine, le scarpe col tacco. Poi si è preso ogni mano che gli offriamo, si è incamminato con le sue gambe esili come stampelle, il golfino con la zip tirata su fino al collo che lo protegge come può. Lo so, che sei teso. Sento un sudore freddo anche io, lo stringo in quella mano, ma in fondo è una paura buona, l’odore di un evento. Si annusa nel mattino, mischiato all’aroma del pane dall’angolo del fornaio, che oggi cambia il mondo. Si scorge in quella folla fitta di teste mai viste, tutti ammucchiati ai cancelli, dapprima, poi dentro all’ingresso, oltre le porte di vetro, un muro denso di fiati e magliette, un fremito di eccitazione che corre nell’immobilità di tutti.
E si aspetta.

Patrick ha il viso chinato, si tormenta il labbro con le dita. Chiamano i bambini per formare le classi. Quelli salgono, uno a uno, su in cima alla grande scala dove la maestra li attende, poi i genitori si accoderanno.
Mi sono piegata a raccogliergli il volto: “Patrick, ma sei anche un po’ contento?”
Scuote la testa, senza sollevarla.
“Hai solo paura?”
Fa sì col capo, e i capelli lo seguono sulla fronte.
Per un attimo temo che non salirà, non con tutta queste gente. Questo fracasso che ingoia ogni certezza e intimidisce la curiosità. Invece chiamano il suo nome: Patrick Lebout. Vai, amore, vai, noi veniamo appena finiscono di chiamare tutti quelli della tua classe, e lui corre su, corre, inseguito da tutto, anche da ciò che non dico, da questa palla di muco che mi va su e giù in gola, da questo nodo di emozione.

Cinque minuti più tardi ha preso posto in un banco. Noi siamo dietro, tutti addosso al muro, alle pareti laterali e al fondo. Come il mio primo giorno di scuola al contrario: com’è che adesso sono io quella in piedi alla parete? Sono io, adesso, là dov’era mia madre.
Aspettiamo che le maestre si presentino meglio, che scandiscano il loro nome. Aspettiamo un discorso di apertura. Ma c’è un frusciare denso, tutt’intorno a bambini immobili come statuine, e nulla arriva. Qualcuno fa una domanda, le maestre rispondono piano, non si sente, non ripetono. Qualcosa sulle deleghe. E i genitori già sciamano fuori dall’aula.

“Cos’è successo? Ma non fanno un discorso? Prima il discorso e poi le domande, di solito…”
“Credo che non ci sarà nessun discorso.”
20140915_111449Con disappunto ci spostiamo in cortile, aspettiamo il lancio dei palloncini che inaugura l’avventura scolastica. Siamo pochi, molti se ne sono andati. Non hanno capito, non hanno avuto l’informazione. Io ho avuto fortuna, ho avuto accanto la mamma giusta, quella che ha saputo da un’altra mamma, e un’altra ancora, di questo lancio.

Loro arrivano per mano, una squadra composta. La prima C ha il pallone verde. Sono tutti pronti, i nomi scritti su cartoncini dello stesso colore, legati al nastro. Una maestra con la maglia smeraldo strattona i piccoli, li vuole in ordine, in cerchio, perfetti.
Uno, due, tre… la direttrice conta, e al tre i palloni coi nomi se ne vanno.
Su, oltre i rami ancora pieni di foglie, oltre i tetti dei palazzi, oltre le mani, quelle dei bambini che sono rimasti composti come li hanno messi, obbedienti, una truppa di piccoli soldati. Oltre le nostre, rimaste qui così in basso, qua sotto dove nascondo anch’io il mio disagio e l’eccitazione si sta sgualcendo nelle tasche. Li guardiamo finché riusciamo, fin dove arrivano i nostri occhi.

20140915_111641Poi le truppe rientrano in classe, nessuno dice, nessuno spiega. Mi lascio convincere dal vociferare che dobbiamo tornare a riprenderli alle 12.30.
E ci sarò, saremo lì, tuo padre e io, in prima fila. Con un taglio di focaccia e la tua sorellina. Ti chiederò cos’hai fatto. Non lo dirai. Non subito. Forse mai. E mi chiederò per sempre cosa ricorderai di oggi, cosa ti resterà.

Io ho visto un’istituzione ancora senza volto. Un obbligo che ti chiama, ti divide con me. La gioia di stamane accartocciarsi nella delusione, in questa confusione senza occhi né voce che mi frastorna.
Ho guardato quei palloni volare via, e ho pensato che per la prima volta, la prima volta, davvero, mio figlio non mi appartiene.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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