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Maternità

Ogni notte, prima o poi, finisce

LE DICO CHE SE È ARRABBIATA VA BENE, MA LEI NON LO È. E FORSE VORREI CHE LO FOSSE

 

Lavo i piatti della colazione. Con cura, la mano ripetitiva sui bordi, la spugna sudata di schiuma. Lavo i piatti, la testa è un campanile che suona incessante, fa come quei tocchi funebri della chiesa centrale del quartiere. Lavo io, faccio io, sconto quello che posso. Le colpe mi inseguono come uno sciame.

Nessuno vorrebbe mai fare del male a un bambino, nessuno vorrebbe mai fare del male a un figlio, una figlia.

Com’è potuto accadere?

Rifaccio il letto, sconto un altro po’. Aspetto di dirmi poteva capitare a chiunque. Solo che è capitato a me.
Nessuno vorrebbe mai fare del male a una figlia.

Mi sono alzata ogni due ore, ho messo la sveglia. Mathias diceva mi alzo io, vado a controllare.
– No. Non puoi salvarmi sempre: sono io che l’ho fatta cadere. Sono io che devo alzarmi, andarla a vedere.

Era una mia responsabilità, è anche una sorta di punizione, mi alzerò, farò una notte frammentata come quelle delle prime poppate, dei malanni. Come quando Patrick era neonato e mangiava poco e ci puntavamo la sveglia per allattarlo spesso.

Un attimo eravamo in piedi, dai Sarah, metti il pigiama… Isabelle aveva già fatto la sua gara col mio conteggio fino a dieci, era andata in camera a riporre non so più cosa, e Patrick era già pronto per la notte.

Toglie la maglia, infila la blusa rosa del pigiama. I leggings s’incastrano nelle calze. Perché si incastrano? Perché non sono scivolati fuori?

Così le dico ti aiuto, Sarah.
– Anche le calze.
– Va bene, tiro.

Io tiro, lei è in piedi, io tiro e di colpo è un tonfo secco, come uno sparo.

Cade come un bastone rigido. Cade diritta, non ha nemmeno provato ad aggrapparsi al bancone. Il bancone ti avrebbe retto, Sarah. Cade come un albero mozzato in una foresta. La testa picchia forte, lo schianto sulle piastrelle risuona fino a Mathias dall’altra parte della casa, di là in camera dove sta rifacendo i letti dei figli.

C’è un lungo momento. Lei distesa, immobile. Io muoio.

Non esiste la cucina, il frigo tace, tace la sera, il pomeriggio passato in quell’appartamento al nono piano che abbiamo affittato per mia suocera. Guardare sotto, da quel balcone così alto, volare un po’ in quella novità vertiginosa cui non siamo avvezzi.

Adesso è un’altra vertigine, siamo solo lei, ferma come in un fermo immagine infinito. Io. Le piastrelle di gres.

C’è questa differita tra la mente e i gesti, sembrano secoli, poi la mano accorre, l’afferra, chiama: – Sarah!

Ha gli occhi grandi anche se sono le ventidue passate. Grandi e vuoti. Sembrano pesci.

Grido il nome di suo padre, grido vieni, vieni, vieni!

Allora lei si scuote, le parte un pianto, uno spavento come un secondo sparo. Sembra quei piccoli che vengono al mondo senza un suono. Che si sta lì, la madre divaricata dal travaglio, il fiato fermo, l’ossigeno manca di qua e di là di quel parto incompiuto, di quella vita che non viene intera. Fino al primo sussulto che slaccia le attese.

Io non piango, non posso. Sono la madre e devo restare la madre. Come stai, ti fa male, scusa.

La portiamo sul divano, cerca di rilassare il volto, ma quello presto s’accartoccia. È il dolore e lo shock: adesso cosa mi succede? Forse se non gridavo. Chissenefrega se ho urlato. Forse se i pantaloni non fossero così stretti, se non avessi tirato, se non avessi fatto una cazzata tale. Una cazzata tale.

Ripeto scusa milioni di volte, le dico non vorrei mai farti del male, le dico non voglio che soffri. Le guardo quegli occhi in pena, la bocca in una smorfia: la sua, la mia.

Il ghiaccio fa poco, le viene nausea. Le fa un male fottuto. Le ho fatto un male fottuto.

Può capitare, non sentirti in colpa, non è niente, vedrai starà bene: tutte frasi orfane, vengono a cercarmi e io non le accolgo, non le prendo non le amo non le sento. Non mi toccano.

Sto lì. Nelle mie cure in parti mal proporzionate l’amore, la paura, e la colpa. Le dico che se è arrabbiata va bene, ma lei non lo è. E forse vorrei che lo fosse.

Invece l’abbraccio è un cuore solo, lei nel mio e il mio nel suo come conchiglie madri l’una dell’altra.

Non accadrà nulla, non c’è sangue dietro le orecchie né segni sotto gli occhi, parla, reagisce, risponde, è vigile. Ma il dolore e lo spavento che le ho dato sono già abbastanza per ferirmi. Sono mille passi oltre qualsiasi cosa, oltre il bene che ci curiamo di fare ogni giorno ogni ora. Sono talmente oltre il confine del buono…

Si appisola, mi cade sulla spalla. Leggo sul tablet, come si fa osservazione. Non è necessario tener sveglio il bambino, è sufficiente svegliarlo ogni due ore, controllare che sia reattivo.

Accendiamo la TV, aspettiamo il primo giro delle due ore. Le immagini del televisore s’interrompono ogni poco: Sarah che cade secca, come un bastone. Il tonfo come uno sparo.

È la mia notte, è l’amore che posso: cura ed espiazione.

– Sarah stai bene? – è mezzanotte e trentacinque. – Guardami. Toccati il naso. Va bene. Ti portiamo a letto.

Dormo seduta nel mio letto, il cellulare accanto. Mi alzo alle tre e poi alle sei. Vado di là, la scuoto, lei è confusa dal sonno, è il sonno, non il cervello che sfoca.

Sarah mi senti, Sarah rispondi, Sarah sono venuta a vedere se stai bene.

E poi la notte finisce, quando ci alziamo lei sta bene. Ha fame, sorride. Ogni notte, prima o poi, finisce.

 

[Photo by Marisa Harris on Unsplash]

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 8

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  1. Mammawriter

    Una notte di questa estate, è successo. È caduto da solo, siamo corsi in guardia medica. Vuoi o non vuoi le colpe te le dai comunque. Quel che fa rabbia è il suo dolore. Sarebbe stato lo stesso se non ci fossi stata

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      Maddalena

      Ciao cara… Certo, malauguratamente le colpe ce le diamo sempre. Nella mia esperienza, però, non essendo troppo apprensiva non mi sono mai colpevolizzata molto se un figlio cadeva di suo senza troppi pericoli. Invece, ci colpevolizziamo quando sappiamo che quella caduta è rischiosa, perché pensiamo che potevamo essere più attente. Dallo scivolo, da un letto alto, per una superficialità nostra. Ti capisco. Siamo fortunate che tutto si sia risolto: ad altre non è andata così bene.

  2. Anonimo

    Caspita! Che spavento! Povera Sarah! Grazie al cielo niente di grave, anche se ci credo bene che tu Madda ti sia presa un bello spavento. E con quel tonfo… Bacioni a te e a Sarah.

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      Maddalena

      Quel rumore lo sento ancora riecheggiare! Per fortuna Sarah ha la testa più dura del pavimento. Comunque poi l’ha vista la pediatra, per sicurezza, anche se eran già passati due giorni: conferma che sta bene. 🙂

  3. Lorenzo

    Io gli ho rotto il naso a 2010 facendo una cazzata con la bici. Capisco i tuoi sensi di colpa. Io ancora adesso penso a quello che gli ho fatto passare. E la cosa che più mi ha fatto male è stato sentirle dire che era colpa sua. Ogni vola che penso a quel giorno mi viene un nodo in gola.
    Un caro saluto
    Lorenzo

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      Maddalena

      Sai che ti ho proprio pensato? Non sul vivo del disastro, ovviamente, ma dopo, quando pubblicavo il post: ho ricordato la vostra caduta in bici, il casco che non c’era, e il sentimento che avrai provato. Grazie per la tua testimonianza, un abbraccio.

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