Non ho mai creduto al Capodanno. Da ragazza il suo bello era la scusa per un lento in quelle vacanze con la parrocchia. A volte era un ragazzo che non mi piaceva, però poi le luci cadevano, ci si muoveva prima a fare i treni per il salone di qualche grande casa di montagna, ondeggiando i fianchi. Poi si scioglieva la presa, le coppie storiche s’incollavano, noi altre eremite aspettavamo la mano salvifica di qualche barba incolta.
Valeva comunque la pena. Tanto nessuno t’avrebbe davvero oltraggiata, il don stava seduto su una sedia come un boxer all’angolo del ring. Intanto sperimentavi: che odore ha, la pelle di un maschio? Che tatto, la sua camicia elegante estratta dallo zaino?
Altre volte era il moroso. Il fidanzato vero. Quanto avevi aspettato quel momento: era un momento al quadrato. Perché per anni t’eri fatta bastare lo stupore di una camicia estratta dallo zaino. E per anni avevi anelato a un amore.
Quelli erano Capodanni veri. Perché la festa era nell’anno che finiva, e in quello che arrivava. Perché credo alle feste. Più che alle date.
Dalle date ufficiali mi svincolerei volentieri. Quelle che contano sono quelle che ho fatto mie, sono le vostre, sono le tappe della vita, non del calendario.
Perciò quello che auguro a tutti è di superare la notte. Indenni ai petardi. Ma soprattutto di superare ogni vostra notte, data e traguardo. Spingendovi sempre oltre: non per fare bella figura, non perché lo dice il calendario, non per salvarvi le chiappe o lisciarvi il pelo.
Avanti: è questo il senso del Capodanno. E il mio pensiero speciale va a chi, questo avanzamento, l’ha visto gravarsi di qualche perdita, di una ferita, un ostacolo: non è necessario vincere stanotte. Alza i calici e alza il piede: scavalca. Con i tuoi tempi, coi tuoi Capodanni.