IL PIÙ DELLE DOMANDE CADE DENTRO A VOCI CHE SI PARLANO DI LÀ, E AD ALTRE CHE SI PARLANO DI QUA
Certo Skype potrebbe sembrare la rivoluzione economico salvifica per quelle famiglie che vivono disseminando geni per il mondo. La nostra, per esempio: una sorella in Norvegia, un fratello in Cina. Due cugini negli States (ma su coste opposte), una zia con uno di loro, altri zii in Sudamerica. La suocera in Francia.
Potrebbe.
Allora di solito funziona così: l’altro chiama, tu hai il pc acceso ma senza volume (come del resto il telefono e il citofono), e anche li avessi a manetta le urla dei figli annienterebbero ogni altra fonte sonora. Quando t’avvedi di quell’icona sullo schermo, il parente è già passato a miglior vita. Però provi. Chiami. Lasci la tua inconcina anche tu. E a quel punto almeno hai pareggiato i conti. E, tutto sommato,
ti convinci che quel che importa è il pensiero. Anche ai tempi degli affetti su Skype.
Il problema vero sorge quando invece i tempi combaciano, e di là di uno schermo una specie di sorella annebbiata da enormi pixel ti parla con voce metallica.
– Emy, non ti sento.
Ma quella non capisce, dacché lei, pure, non sente te.
Dopo un paio di gesti la più coraggiosa riaggancia e l’altra, in uno slancio ottimista, sa che l’ha fatto a fin di bene: richiamerà sperando di prendere meglio la linea.
Adesso infatti la senti. Ma l’immagine è inculata da un volto immobile che potrebbe essere il suo, ma anche quello dello Jeti.
Finché tutto quadra, di solito al pc dei miei che, chissà perché, ha una linea evidentemente più propensa alla collaborazione, o forse si intenerisce dinanzi a quei grandi pasti delle ricorrenze e dei festeggiamenti, e languendo per l’assenza dei lontani ci accorda il privilegio di una video chiamata a regola d’arte.
Allora ti sottoponi con rassegnazione all’incontro.
Di qua: una serie di figli cui non frega nulla di accorrere, ma che tu vuoi giustamente mettere in bella mostra, come sempre si fa coi parenti lontani: – Dai, su, Patrick, Sarah, Isabelle, venite a salutare la zia!
Si accatastano sulle mie ginocchia per il tempo di un ghigno, la zia lancia due domande gentili, allora, cos’avete regalato alla nonna? E la scuola come va? Isa, ti piace andare all’asilo? Ma quelli sono già scesi in volata: – No, guarda, Emy, stai parlando con me.
A quel punto anche alle sue spalle passano figuri dalla dubbia identità, che lei invita invano a raccolta. Intanto mia madre chiama per il caffè e per un certo tempo mia sorella – probabilmente senza accorgersene – parla al cospetto di una seggiola vuota, con la sola consolazione della propria immagine in un angolo, dove riaggiustarsi i capelli di tanto in tanto.
Quando ritorna la folla c’è un minuto di silenzio, del tipo parlo io o parli tu? Poi parliamo tutti insieme.
Alla prima pausa qualcuno si sente libero di andare di là a prendere o fare qualcosa: la comodità di questa compresenza che diventa – così – coassenza. Può seriamente capitare che da ambo i lati non sia rimasto nessuno.
Finché siamo di nuovo tutti lì, affollati per i saluti.
Non vi siete detti niente, avete visto poco, non c’è stata la privacy di una telefonata, men che meno quella di una birra al pub, di una tisana in salotto. Però avete avuto un assaggio esatto della vita sospesa e incompiuta dell’altro, in questo
scorcio di anime che vanno e vengono, dove il più delle domande cade dentro a voci che si parlano di là, e ad altre che si parlano di qua.
E intanto avete passato trenta minuti in parallelo. Non proprio insieme, ma li avete passati.
Commenti 2
Io uso Skype per sentire amici ad Edimburgo e con loro va abbastanza bene. O meglio, andava prima dei rispettivi figli. Ora è il delirio che hai descritto. Per fortuna una volta all’anno rientrano in Italia e li vediamo dal vivo!
Author
Io dovrei usarlo più spesso ma, appunto, mi trovo male e forse l’errore è di impostazione: bisognerebbe riservare un luogo, mettersi tranquilli, per una vera comunicazione.