Maternità

Madre e figlio

UNA DANZA MUTA

 

Mi raggiunge una donna alta su zeppe importanti: – Dovrebbe esserci il numero dello studio, provi a vedere.

Giro il nastro con le etichette del mio ecocardio, trovo un 33.
– Grazie.

Il pavimento è azzurro maculato, come un enorme captcha, come quei disegni per interrogare chi è daltonico. Mi siedo, anche lei torna a sedere, accanto a un ragazzo coi ginocchi che s’affacciano da jeans sfilacciati, le caviglie asciutte che entrano in qualche paio di scarpe alla moda. Guardo il teschio d’argento su quelle calzature. Guardo le zeppe di lei, il tatuaggio che le sale come un’edera sulla caviglia. Sulla spalla ha una farfalla. Anche lui è pieno di graffiti. Per tutto il tempo della mia permanenza mi chiederò perché sia venuto con la madre.

Li studio, cerco cosa rimane: poi. Queste madri che sembrano comode e invece magari sono chiatte fragili, disossate. È lei, a toccarlo. Si sporge in piccoli gesti cauti sulla scusa di un cellulare, stanno guardando qualcosa da comprare, una moto, un’automobile. È bella anche rossa, dice lui. Lei tocca un ginocchio con le dita, la sua gamba col gomito. Adesso il viso s’appoggia sulla spalla del figlio, sembra leggera quanto il suo corpo, il corpo esile e slanciato di entrambi.

Come si trova, questa dimestichezza? Come s’impara?

È una danza muta.

Eppure è il suo grembo che l’ha creato, pare non abbia nemmeno il contributo di un uomo, lo dice anche la vera che manca.

Eppure è il bimbo che succhiava latte e ore, è un corpo nudo lavato migliaia di volte. Hanno lo stesso taglio di capelli, fatti cortissimi, come pulcini in serie. Sono il maschile e il femminile della stessa persona, identici, mimetici. Lui resta eretto, muove le gambe solo per incrociarle e poi le disfa. Il capo fa brevi movimenti da un lato all’altro, scopre un orecchio con quel brillantino vistoso.

Sarà un continuo corteggiare i nostri figli per un amore che un tempo era assoluto.

È stata lei a insistere: – Ti accompagno.
– No, ma’. Lascia stare.
– Ma sì, mi fa piacere.

Stamattina s’è messa il vestito buono, quest’abito color cipria che scende senza il disturbo d’un corpo impreciso. È arrivata sotto casa sua come una fidanzata.

Con la bellezza che si chiude male negli occhi vispi, in quell’anticipo impaziente.

Magari invece vivono ancora insieme. Sono lavatrici e segreti, boxer per altre donne che poi lei gli lava.

Mani sulla stessa tavola quando si ferma a cena. Le altre sere va. Guardo quelle dita tornite, penso a quanti corpi di femmina hanno traversato.

Forse ha un cuore incerto, custodito da quel fisico scattante all’apparenza, dal suo abbigliamento da fichetto. Aspetta un intervento chirurgico, rilassano i volti in quella ricerca che adesso sembra una casa perché parlano di bagni, che sono grandi come il salotto. Ma dentro sono cuori sudati. Per questo c’è lei. Per questo ha insistito, ha messo il vestito cipria, si è alzata su quei tacchi troppo vistosi.

Sulla fine sorride di più. Lui. Si slenta un po’, come riabituato a quella presenza. Lei è rimasta uguale per tutto il tempo, un uccellino paziente, che becca piano e beve senza pretese.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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