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Altre Verità

L’ultima serranda

C’È SEMPRE UN MOMENTO, UN OGGETTO, UN GESTO CHE SI FA CARICO DI TUTTO. CHE HA L’INGRATO COMPITO DI SEGNARE LA FINE

 

Quand’ero bambina e mi domandavano che lavoro faceva mio papà non sapevo mai bene cosa dire. Vendeva. Ma non era così facile: perché nel suo negozio dall’altra parte della città non c’erano solo vestiti, c’erano scampoli di tessuto, e poi tanti, tanti uffici. Non era una bottega come quelle che ero solita trovare in giro, due o tre luci su un marciapiede, due commesse, due camerini.

Di sopra, dove c’erano gli uffici, il suo era il secondo migliore. Il primo era quello del nonno, che poi divenne di mio zio. Però quello di mio padre aveva comunque il suo bagno personale, e pure un piccolo terrazzo con le piante. Qualche volta ci ha portato, io ne ricordo una in cui mi misi a fare i compiti. Un’altra, invece, mi offrì una stanza intera, era il periodo delle feste di Natale. Forse anche allora lui mi pensava a studiare, ma io guardavo dalla vetrata quel corridoio nudo diventare strada, la macchina coi ragazzi, il marciapiede in Via Rondoni, e volavo nei miei sogni di ragazzina, scrivevo. Di quei due amici che ieri mi hanno detto che sono carina, e io comincio a crederci.

Più tardi iniziarono le gonne. Le sue erano troppo lunghe, già troppo lunghe per me. Le provavo in quel camerino che forse non era neanche tale, le sue commesse diligenti e ossequiose, al piano terra. Presi un tubino a quadri e uno beige, mi assicurai che li avrebbero accorciati di almeno tre dita.

Chiusero un’estate. Il fax mi arrivò nel college di Edimburgo dove studiavo, c’erano troppe cose da dire per attraccarle al ciao amore di una telefonata serale. Quel pomeriggio sedetti nell’aula svago, sotto un televisore spento. Avevo diciott’anni. Abbastanza da farmi scavare da una fine. Piangevo e avrei voluto che lui mi vedesse, così sapeva quanto gli ero vicina. E avrei voluto che non sapesse, così poteva credere che fossi forte.

Chiusero come aveva già chiuso altre piccole attività, piccole fini consumate nella cucina con mia madre, e che a noi, bambini, non arrivavano da una porta socchiusa. Perché mio padre lavorava di brutto, ma le brutture a casa non le portava mai. Se le scrollava fuori, come i cani da una pozza, passare dalla soglia era un gesto sufficiente al sorriso. Il resto lo lasciava appeso insieme al soprabito.

E com’è che aveva ancora quel grande, lussuoso negozio a Torino, invece? Gli restava quello. Insomma i miei nonni, di Torino, avevano aperto a Milano, e adesso lui, residente a Milano, andava a lavorare a Torino. Mi ha spiegato più volte la genesi di questa storia e io, regolarmente, me la dimentico.

Divenne familiare così: vederlo sorseggiare il suo succo d’arancia, mentre io mi preparo per andare in università.
– Oggi sei a Torino?
– Sì.
Il mercoledì, il venerdì e il sabato.

Era un posto gigante, anche per la quasi donna che ero. All’orgoglio di sentirmi la figlia del padrone, si mescolava sempre quell’incerto imbarazzo dei convenevoli delle commesse. Ero “la figlia del Dottore.” Magari arrivavo in braghe corte di jeans sfilacciati, come quella sera che “vieni a Torino in treno, ti porto su io in montagna, saliamo insieme”. E mi ero fatta i portici con la camicia legata in vita e i Muse nelle orecchie traversando tavolini rotondi e caffè di signore per bene.

Il venerdì dormiva di sopra, in un appartamento che usavano come magazzino, una stanza gli valeva da camera da letto. Il sabato rientrava la sera, mia madre cucinava di nuovo alle nove, oppure scaldava la cena rimasta.

Negli anni si è accomodato. Ha preso posto, ha preso forma, scambiato odori. Il bar del caffè all’arrivo, il pranzo che lì costa poco ed è buonissimo, i bottegai attigui, l’omino del parcheggio coperto, gli agnolotti da portare a casa per Natale. I giri in bici sulle colline nella pausa pranzo.

Quando cominci a capire che non ce la fai a queste cose non pensi. Non alla bici, né agli agnolotti. Pensi ai conti da quadrare, frughi il buio nella notte mentre gli altri non sanno, dormi nella tua preoccupazione solitario come un clochard. Perché, di nuovo, a noi figli arrivava un’eco sbiadita. Lui non ce la gridava mai, quella sua morsa allo stomaco, forse anche noi, non chiedevamo abbastanza. Da ragazzi si pensa sempre che un padre è un padre. Solo dopo, molto più tardi, capisci che puoi stare anche dall’altra parte, essere la spalla, per quanto piccola, che dona la sua presenza.

Ha venduto a Celio. Sono sfilati alcuni nomi di possibili acquirenti. Poi questo è quello che si ferma, che si prende le insegne, i clienti. Quel caffè dal barista di mio padre.

Le foto del negozio divelto ci arrivano via mail, noi là non andiamo. Va lui, avanti e indietro che sembra come ai vecchi tempi. DISFARE È COME FARE, LO STESSO VIAGGIO DI TAPPE, DI PEZZI, DI COSE. SOLTANTO AL CONTRARIO. TUTTO AL CONTRARIO, ANCHE IL CUORE È A ROVESCIO.

Adesso anche l’appartamento è venduto. Era l’ultimo lembo. L’anticamera dei miei si è presa quei sacchi di buste mute col logo, quadri levati dalle pareti, una lampada da tavolo. Ammennicoli stupidi e piccoli, per grandi sentenze.

Chiudere. Prendere per l’ultima volta quell’ultima cosa. C’È SEMPRE UN MOMENTO, UN OGGETTO, UN GESTO CHE SI FA CARICO DI TUTTO. CHE HA L’INGRATO COMPITO DI SEGNARE LA FINE, anche se la fine era cominciata da tempo.

All’ultima luce che spegni, i dettagli si sono già messi in fila, ordinati e cresciuti, abitudini lievitate in affetti: la Milano-Torino nella nebbia, la dentatura delle Alpi nei mattini puliti, il barista, la bici sulle colline.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 10

  1. Giovanna

    Mi chiedo spesso se questa tua capacità di spalancare l’anima dentro alle parole, non sia la tua personale ribellione a tutta questa immensa discrezione. Percepisco una sorta di insofferenza nei confronti di un passato troppo equilibrato, forse misurato, non so, non riesco a trovare una parola che soddisfi questa mia sensazione. Perdonami, se ho osato tanta confidenza 😉 . Voglio leggere libri tuoi, a valanghe. Ma una foto di quella ragazzina che ascoltava i Muse? Ciao 🙂

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      Maddalena Capra Lebout

      Chi lo sa se è nato prima l’uovo o la gallina: di sicuro ho un’indole sensibile e un po’ ribelle, che a volte non mi rende facile comunicare con chi è più chiuso o “equilibrato”, il che genera ulteriori sismi… Grazie del tuo sostegno Giò, libri miei, a valanghe, la vedo dura. I cosiddetti “esordienti” devono essere meglio di chi ha già fama, per non farsi rimbalzare da editori che ormai non vogliono rischiare.

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  2. Dindalon

    Te l’ho già detto che adoro il tuo modo di scrivere? E ti ho già detto che ti vedrei benissimo come scrittrice? Non credo, allora te lo dico ora: hai un futuro, ne sono certa.

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      Maddalena Capra Lebout

      Che bello, mi onora tantissimo sentirti dire questo. Vorrei, vorrei diventare scrittrice, ma è più facile sognarlo che diventarlo, gli editori sono durissimi, e, anche se scrivo bene, ci sono tanti buoni autori, l’inclinazione personale non basta. Io ci provo, e spero tanto che il tuo oracolo si avveri. Grazie infinite!

  3. Mamma avvocato

    Cavoli, mi hai letteralmente trasportata con te, con voi, nel negozio, in ufficio, a Torino che conosco bene. Ho capito qual era, il negozio. E capisco le sensazioni, perché ci sono passata da poco cambiando ufficio, solo che essendo giovane i tempi trascorsi sono minori e dunque anche il dolore, i ricordi, le abitudini. Non deve essere stato facile, per i tuoi genitori, per tuo padre. Concordo con gli altri commenti: scrivi in modo così coinvolgente, anche se a volte criptico, che ti leggerei per ore!

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  4. Giorgia

    Sono arrivata a te e a questo post per puro caso… mi hai emozionato: la nonna di mio marito, storica sarta torinese tuttora lucidissima nonostante i 96 anni, ne parla spesso; quando il negozio ha chiuso si è commossa. E ti assicuro che per far commuovere lei ce ne vuole! Mi fa piacere averti trovato, questo post è stato significativo anche per me, grazie!

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