Maternità

L’importanza di partire

I FIGLI HANNO BISOGNO DI SENTIRSI UNICI, MERITEVOLI, IRRIPETIBILI

 

Resto a guardare la macchina finché la via non la ingoia. Così sono le madri: «Vai, parti», a metà tra l’incoraggiamento e lo sfinimento di avere il figlio addosso quando non ha più l’età, per starti addosso. Poi rimangono lì sull’angolo, dove il prestinaio sforna odori e pani, al bordo dell’incrocio traversato da qualche altra collega di maternità, calpestato dalla vita comune. Solenni, nel momento.

Sarà un’incredibile avventura. Per Patrick che va, per noi che lo immaginiamo lontano.

Rientro, chiudo casa. Le ragazze si sono messe a giocare al Lego, sulla credenza in salotto uno solo dei due gusci fatti al campus luccica piano.

«Vuoi andare a Lille dalla nonna?»
Sotto quella cupola di una finta carovana nella steak house mia suocera consumava la sua insalata senza obiettare, senza contarci. L’ha visto intero e l’ha visto rotto, in queste ore a Milano con noi: un ragazzino fragile che si sente sfortunato, vittima di tutto, che crede alle congiure del mondo intero, alle cospirazioni contro di lui. Restava a guardarci, nei suoi sandali, nel suo francese liquido, nell’italiano che invece zampetta incerto, salta fossi invisibili. Mi aspettavo la reazione a un altro affronto presunto: «Ecco, mi volete mandare via!», ma chiedere fa onore ai coraggiosi, e così Patrick ci scalza: «Sì!»

È lì, che tutto è cominciato. O forse prima, da quell’uovo, quel guscio.

Allora perché non fare subito, già che lei riparte lunedì? Un orgoglio era già venuto a prenderselo, sentirsi grande, lui solo con la nonna, in Francia. L’aereo, la casa, il protagonismo. Bastava aggiungerlo al volo di rientro di mia suocera, battagliare un po’ con gli istintivi ma tanto non ci sarà posto sull’aereo, il suo pessimismo difensivo. Ora sorrido, ché Patrick un po’ aveva ragione: è stato un calvario, mettere a segno l’impresa. Verificare la disponibilità dei voli, acquistare un biglietto per lui, modificare quello di lei così che viaggino seduti accanto fino a Parigi. Restava solo il treno per Lille, da vedere sul posto: quello se lo modifichi online ti fanno la penale. Ce l’avevamo quasi fatta. Solo che

l’entusiasmo e l’istinto si somigliano, si muovono ingenui. E dove quelli realizzano, la burocrazia crea posti di blocco.

Che un minore non può espatriare senza una domanda presentata in Questura e poi un visto rilasciato da quella lo scopriamo su suggerimento di mio padre. Ed è una di quelle soffiate che partono minime e poi non si sa come si mangiano tutta la domenica. Dai quattordici anni un ragazzetto può andare dove vuole, neanche la firma d’un genitore. Ma prima di allora, se varchi il confine con la nonna che ha il tuo stesso cognome, con un foglio firmato da entrambi i genitori, con la copia dei loro documenti d’identità: sei fuori legge. Serve il timbro. Che si ottiene in due settimane.

Trasliamo cautamente di alternativa in alternativa, lui l’ha intuito che qualcosa s’inceppa. È che quel viso non voglio romperglielo, ma preferisco scheggiarlo io che una hostess al check-in o un gendarme ai controlli. Provare lo stesso, rinunciare a priori e chiedere il rimborso di questo biglietto appena fatto… Mandarli in treno direttamente a Tolone dove mia suocera è attesa da parenti a metà settimana. Patrick fa su e giù, nelle nostre proposte, nei sì e poi nei no, ci vede industriarci, gli arriva che stiamo cercando di salvargli la vacanza, di custodire il suo slancio. In mezzo infiliamo un gelato, una spesa, innumerevoli ore su internet, qualche telefonata. E infine il verdetto: lo dico io, lo dico mentre sono sdraiata con le ragazze che assaltano il mio corpo.
«Non mi fido. Chiediamo il rimborso, e voi andate direttamente a Tolone, con auto a noleggio. Te la senti, di guidare fin lì?»

Mia suocera approva, le gambe incrociate sulla soglia. Les jeux sont faits.

Il resto arriva. Poi. Senza più fatiche. Una borsa, le sue cose. Un costume da bagno. Un altro addio.

Si impara sempre qualcosa dell’altro, anche del figlio, quando si cambia scenario, quando si mescolano le postazioni. Per esempio il coraggio: Lille se ne va, nessuna privacy, la nonna da dividere, parenti mai visti parleranno una lingua che non conosce, sarà in una terra lontana, coi suoi gusti difficili a tavola. Senza quel grosso cane di pelo sul letto, senza l’iPad mezz’ora al giorno. Non una di queste cose l’ha oltraggiato, mentre la sola spinta era la curiosità, conoscere, provare. Sentirsi importante.

Lo rivedo sabato, incazzato nero perché la nonna non gli aveva dato subito il regalo che aveva per lui. Non c’è aspettativa che puoi tradire, e sarà un tradimento totale. Non c’è imprevisto che possa accadere, e sarà prova di un destino già scritto, di un valore che manca. Allora si dibatte, uccello agitato nella sua stessa gabbia. A più riprese, a calci, la furia se lo prende e lui ci si perde. Non c’è parola che basti, fermezza, minaccia, conforto. È uno spettacolo amaro, sbatte le braccia, il corpo, finché ferisce quell’uovo di cemento dorato fatto al campus, l’oggetto pregiato, prezioso. Quello cade, va in pezzi. Patrick cade, va in pezzi. Sconfitto da sé stesso. Tutto si ferma, nessuno parla, è un istante buio e sacro nel contempo. Allora si accascia, e nella resa ritorna duttile.

L’uovo non c’è più. Mio figlio è partito. Noi, invece, ci siamo sempre. E quel trafficare domenica pur di farlo partire è un trafficare eterno, è tangenziali e strade nel cuore. Dove niente è mai rotto senza rimedio.

I figli hanno bisogno di sentirsi unici, meritevoli, irripetibili. A volte lo sentono meglio in una Panda che svolta, la madre sull’incrocio, finché la prospettiva li scioglie. La madre in punta di piedi. Sempre.

Stanotte mi sono svegliata, un fruscio nel ruminare buio dei sonni: «E se gli manchiamo?»

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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