NON PUOI PIÙ STARE NELLE SCUSE, PER VALIDE CHE SEMBRINO.
FORSE, TUTTA LA VITA È IMPARARE A TOGLIERE SCUSE
Non so perché si dica che la nostra condizione naturale è la gioia, l’amore. Che per essere tristi, per stare male bisogna in un certo senso sforzarsi:
la verità è che stare male è comodo.
È sempre colpa di qualcuno, o qualcosa. Del traffico, del maltempo, di chi non ci ha detto che. Di chi invece ha detto troppo. È colpa dei genitori che non ci hanno capito, delle cose che ci hanno insegnato, limitandoci. Di quelle che non ci hanno insegnato, limitandoci. Insomma ci hanno comunque limitati. Dei tabù intoccabili, delle regole che ci snaturano. Della mente, perché
ci hanno convinti che la verità sta nel cranio, e invece quella scalcia due spanne sotto: ma noi non lo sappiamo. L’abbiamo dimenticato.
Ed è vero, sembra proprio naturale essere felici, perché vedi per vivere felici basta accordarsi al cuore e per accordarsi al cuore basta scendere. E quindi che sforzo è? La Horney dice che basta rimuovere ostacoli. Allora evidentemente siamo proprio dei fessi.
A noi piace stare indietro, al di qua delle barriere, dei muri di confine. Di un filo spinato che magari poi è una luminaria, ma a noi ci sembra spinato, con quegli aculei nelle ombre.
C’è da chiedersi perché tutti vivano in questo modo quando ce n’è un altro, molto più efficace, che ci farebbe stare non meglio, ma Bene con la B grande. Allora leggi tutte queste cose geniali di chi la svolta l’ha fatta: «Siamo in una gabbia senza accorgerci che la porta è aperta», altre varianti sono che abbiamo già la chiave in mano.
Ma la verità che pochi dicono è che stare male è comodo.
Puoi spostarti un po’ di asse, quando inizi a crescere se sei bravo smetti il vittimismo sugli altri, e te lo metti addosso. Sai, come quando provi i primi vestiti da adulto, e dici vedi che mi sta? Come mi sta? Dai, come mi sta? Allora non è più colpa del traffico, del meteo, dell’amico, dei genitori, del mondo: nossignori. È colpa mia. Lo dici, lo sai.
Eh… solo che allora lì arriva un’altra fregatura, perché se è colpa mia, allora sono solo io che sono idiota. Allora vedi che insieme al gessatino che ti stai provando (quello che «vedi come mi sta bene?») ti allacci la cravatta dei sensi di colpa. Quella, per quanto aggiusti il nodo, ti sta sempre una meraviglia. E ti dà un fastidio maledetto.
Poi c’è il passaggio: va bene, mi amo. Dai, okay. Col gessatino, che poi lo posso pure levare se intorno non c’è nessuno, magari mi faccio un giro scalzo, i mocassini ormai sono stanco di lustrarli. Svacchi sul letto, sbottoni la camicia. La cravatta la slenti un po’. Non la levi ché se no ti senti vuoto.
Tienili sempre, quei sensi di colpa. Quella bussola che se no guai, se no sei libero.
Noi umani siamo cani legati al guinzaglio delle colpe. Abbiamo paura dei grandi spazi aperti. Dell’amore senza conteggi, senza pesi.
Allora siamo arrivati qui: che è colpa nostra se soffriamo, che basta togliere cose, e che ci perdoniamo. Bene. Allora cosa manca?
Manca che se tutti restiamo vestiti è perché liberarci vuol dire diventare responsabili.
Ma non degli errori (quelli ce li siamo perdonati, no?): della gioia e di ogni minima azione con e controvento che perseguirla richiede.
È un po’ come il voto: se è un tuo diritto, diventa un tuo dovere. Ecco la fatica.
Perché allora non puoi più dire «non sono capace di nuotare». Ti tocca imparare. Non puoi più dire «non ci vado perché odio il treno»: ti tocca prenderlo, quel cazzo di treno. Non puoi più dire «il lavoro mi fa schifo ma devo guadagnarmi il pane»: ti tocca inventarti un lavoro.
Non puoi più dire «non sono felice»: ti tocca prenderti in mano e, costi quel che costi, renderti felice.
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