Spostiamo i mobili in camera, ho bisogno di novità.
C’è quel grande armadio bianco coi vetri opachi che paiono finestre oblunghe, da folletti del nord. Il comò, dello stesso bianco perlato, scherma una porzione vermiglia della parete sul fianco. Lo penso un giorno che mi si incolla come si incollano certe mezze noie, i pomeriggi acciaccati dall’inconcludenza.
Ho bisogno di un fremito.
“Fremo” è anagramma di “fermo”.
Ci sono paralisi indotte da terzi, ci infiliamo in quest’imbuto delle ultime settimane di scuola, i saggi, le feste, le ultime riunioni. Mi sembro una piccola vedetta immobile, la sentinella delle ore altrui.
Allora dai. Mathias sposta, lo osservo armeggiare, svitare un raccordo tra i due pezzi grandi. Vanno vuotati? chiedo. Dice che ce la fa comunque, vuole estrarre quella sua forza oltre i giri in spalla delle figlie, oltre le casse d’acqua delle spese.
Guardo.
La parete vermiglia che saliva dietro la cassettiera e sputava vita coi suoi quadri, con gli schiamazzi di colore, adesso è stinta. Da quelle finestre nordiche del guardaroba.
Davanti il muro avorio è un chiarore pallido e senza tempo: si arrampica verso il soffitto bianco, ed è tutta una distesa di nevi fredde, dal comò alla parete al coperchio di questa stanza da letto.
Ammennicoli sparsi, le collane rubate dalle figlie ciondolano sui pomelli, i quadri sono a terra. Sono a terra le nostre storie.
Mi sdraio, guardo com’è. Non mi piace.
Lui dice di provare per una settimana. Che adesso non farà tutto a ritroso. Dov’è andato il rosso sanguigno, dove sono le pulsazioni del nuovo?
È un anno lento, sono mesi che non hanno colorato niente, dietro gli armadi. Polvere e sporco, passare gli stracci. Cosa mi aspettavo?
Accanto al nuovo muro c’è uno specchio. Non mi ci guardo mai.
Adesso sono due le sclere grandi, immense, di questi occhi che mi riflettono. Adesso mi par d’avere un altro pozzo davanti. Un’altra assenza.
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