I beffardiIn evidenza

Il (dis)piacere del tè

SALVIFICO NEI MALANNI E NEGLI OSPEDALI. IL MUST DI CHI NON È IN SALUTE

 

Memoria infausta delle colazioni da bambina. Quando lo catapultavo in gola prima della scuola, o di prendere la filovia negli anni che sacrificai in un istituto femminile rimpiangendo per tutta la vita l’iniziazione che avrei poi (comunque) recuperato all’oratorio o in università. Il tè.
Emblema – già esso – di rigore e disciplina.
Non dicono forse che va lasciato riposare e poi filtrato e poi riposare e poi messo in una tazza già calda, e poi riposare ancora, che par sia uscito da una sala operatoria?

Così ci illustrarono, lui era un uomo elegante, lei una donna fine, il prato all’inglese e quel cane cui entrambi dicevano «sitzt!» La mia prima parola tedesca.

Seduti noi però non ci stavamo, sfoggiavamo la gonna della festa (ne ricordo una a strisce bianche e blu spesse come statali, il che mi dava una inconfondibile nota da stabilimento balneare), e attendevamo non certo quell’egregio tè, ma i santi frollini. In quelle visite rare e ben scelte al padrone del lanificio altoatesino da cui mio padre si riforniva.

La gentil dama ci sorprese, comunque, e non poco, con il solo buon tè che io abbia mai gustato nella mia vita.

Evidentemente l’arte non è di tutti e tutto necessita d’arte.

Mia madre non l’aveva, e scodellava il tè nel suo pentolino inox alle sette e quaranta. Alle sette e quarantadue lo scolava come la pasta, da quello alla tazza, avanti e indietro in perpetui risciacqui come nemmeno il Tantum Verde. Così da raffreddarlo e consegnarlo alle mie mani urgenti: alle sette e quarantatré.

Il tè.
Col suo acido limone e sempre qualche seme. Il suo colore «organico» poco rassicurante. Lo prendevo con la brioche industriale, e poi mi tormentava per ore con quei succhi di risalita finché non lo sedavo con la merenda dell’intervallo.

Mi ci è voluto davvero tanto, una specie di emancipazione rivoluzionaria per sfrattarlo e passare al più allegro Nesquik, o al più maturo caffè americano.

Il tè. Che puoi metterci il latte anziché il limone l’ho accettato tardi. In ogni caso la broda risultante non ha la purezza dell’acqua né il gusto ricco del latte.

Anche così puoi abbinarci i frollini, ne esistono apposta siglati per questo: «Tea biscuit» o «Rich tea». Tu prova a immergerne uno se davvero stai prendendo un tè come atto conviviale. Poi devi chiamare un palombaro per recuperare i relitti.

Il tè.

Salvifico nei malanni e negli ospedali. Il must di chi non è in salute.

Perché allora sì, un po’ di piacere lo procura.

Nemmeno la teiera nuova è uscita dal pensile, il tentativo estremo di riconciliarmi con quella che suona come un’abitudine così elegante e sana…

Io quando ho voglia di tè faccio due cose, in alternativa:
1- Cerco di farmela passare.
2- Se non è funzionato mi provo la febbre.

 

[Photo by Jason Leung on Unsplash]

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

Commenti Facebook

Lascia un commento