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Maternità

E poi fu settembre

SCUOLA: DALLA PANDEMIA AL SOGNO

 

– E fu così che nacque la DAA.
– «DAA»?
– Sì, tesoro. Tu non lo sai, ma una volta la scuola si faceva sui banchi…

La donna si passò una mano sul viso, come per ricordare. Erano tanti, gli anni in cui quella era stata la norma. Tanti gli anni di cortili disattesi, di genitori fieri e sommi su pile di libri, gli zaini gravidi di sapere. Si era sempre fatto così e nessuno l’avrebbe mai detto, che non fosse «cosa buona e giusta».
Qualcuno aveva intuito che l’esperienza insegna più delle pagine, che verba volant si dice da sempre ma poi quando si tratta di sistemi pubblici se provi a essere innovativo sembri un pazzo, ti dicono che sei il solito ribelle.

Il bambino allunga una ciotola a Venere, la gatta. La donna si siede a terra, le gambe a V intorno al felino.
Hanno quel giunto sensibile di anni al contrario, lei troppe decine, lui nemmeno una, la stessa inclinazione alle fiabe, ai risi che sbavano, ai dettagli che la gente di mezzo dimentica.
Per esempio quella tazza col bordo rosso in cima al frigo, lei non gliel’ha mai voluto dire, cosa c’è dentro, e lui non ce l’ha mai fatta, ad acciuffarla quando quella va in bagno, quando un rumore attesta che il tempo è propizio per sbirciare. Così la fissa nei pomeriggi che la madre lo lascia lì per andare al lavoro, ma a volte anche qualche domenica mattina, basta un ballatoio, mamma vado dalla vicina.
– Bisogna capire se spirito ribelle e spirito libero sono la stessa cosa. Il mondo cresce grazie a chi pensa diverso, sai? Non dico di fare la guerra tanto per fare. Dico che ogni cosa è occasione. Allora la domanda non è: in che modo possiamo fare nonostante la situazione? Ma: in che modo possiamo fare GRAZIE alla situazione? E decidere che

noi valiamo più di un problema.

Ma lui mica era certo di aver capito. È solo che la donna aveva queste logorree… quando sedeva a terra sembrava che tutto il mondo le cadeva in grembo, e da lì raccoglieva un cielo intero. E tutto, voleva dargli tutto, tutto insieme. In un boccone troppo grosso.

– Dopo le prime settimane di quarantena forzata, che per me fu anche giusta, sai?… Be’, dopo un po’ la gente si divise in due. C’erano i quarantenisti, che non sarebbero più usciti di casa…
– Perché?
– Perché avevano troppa paura, amore mio. Come quando fuori infuria la tempesta. E poi gli attivisti… insomma quelli che di stare chiusi e vittime di un virus proprio non ne potevano più. Mangia, Venere, mangia…
– Ma non avevano paura?
– Oh sissignori. Ma avevano scelto che la paura non poteva essere padrona perché la paura serve per essere prudenti… ma bisogna stare molto attenti, perché la paura genera dipendenza.
Gli spiega che lo stress produce cortisolo, abitua il corpo a questo ormone, e dopo il corpo ne vuole ancora, e si impara a stare sempre in ansia. E poi la mente stessa si nutre sempre degli stessi pensieri.
– La paura va educata, bisogna metterle dei limiti. – Fa un ghigno: – Insomma la paura è disobbediente!

Lui s’è preso le ginocchia sotto al mento, sta lì, la guarda pari, due piccole altezze dimezzate dalle confessioni. Chiede qualche ciliegia, lei gliele dà sempre, in questa stagione, lo chiama dentro, va’ che sono stata al mercato, dai vieni su, che ti ho già fatto il sacchetto. Ma questa volta le ha finite.
– Vuoi una mela, allora? E poi bisogna informarsi, guardare alle evidenze.
– In che senso?
– Per esempio, ai tempi del corona virus, non c’era evidenza che i bambini creassero tutti questi disastri. Erano gli anziani o gli adulti, che si ammalavano. Però, più chiusi di tutti, tennero i bambini. E quando riaprirono i luoghi di lavoro, tutti potevano uscire, ma le scuole restarono chiuse.
– Perché?
E poi riaprirono i bar, e le piscine, e perfino i parchi del divertimento. Gli studi che scagionavano i bambini si infittirono, ma nessuno volle affrontare la loro esistenza.
– Non ce l’ho, una risposta, tesoro.

Adesso si alza, va verso il lavello e pensa solo una cosa: «Ho fatto bene».
Rovescia un getto d’acqua in un bicchiere alto e bagna la gola. Lui è rimasto accanto al gatto per un po’, poi ha scovato una moneta sotto al frigo. Domanda perché stava lì, se può prenderla mentre la sua foga l’ha già allungato a terra.
– Ah. Dev’essere caduta. Vuoi saperlo, che cos’ho in quella tazza? Eh? Monete.
– Per farci cosa?
– Le raccoglievo in quarantena. Era un modo per contare i giorni. Così anziché impoverirmi, mi pareva di arricchirmi. Allora, questa mela?

La sedia che sceglie è blu, ne ha una rossa, una gialla, due color cobalto. Lui le guarda quelle mani incerte che dirigono discorsi così sicuri, che fanno traballare la sedia, il tavolo, perfino, mentre fa girare l’euro sotto il polpastrello.
– Vedi, un certo Fuller diceva:

«You never change things by fighting the existing reality. To change something, build a new model that makes the existing model obsolete». Non puoi mai cambiare le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, allora costruisci un nuovo sistema che renda il sistema esistente, obsoleto.

L’errore fu quello. In verità ce ne furono tanti…

Certe sere le era sembrato di impazzire, per quei silenzi omissivi del Governo, per quelle decisioni che fanno dell’eliminazione la soluzione.
Beve ancora. Ci aggiunge del gin, prima l’ha adocchiato sul pensile, ci ha pensato un secondo, se vuotare il bicchiere o versare e amen. Versa. Amen.
– L’errore fu pensare che la scuola doveva essere ancora banchi e aule. Non eravamo capaci di uscire da questa forma mentis. E dire che altri paesi lo stavano già facendo, di mettere gli alunni nei cortili. Da noi no, da noi i genitori avevano troppa paura, si ragionò sui distanziamenti, sulle stesse misure che si adottano negli uffici, si continuò a trattare il problema bambini in modo uniforme agli adulti, e allora i conti non quadravano mai, o non sembravano convincere.

Da noi il virus fu la scusa non per rinnovarci, ma per confermare le nostre paure: se esci ti ammali, il vero sapere si fa sui libri, i bambini se la cavano sempre, siamo noi adulti a comandare, la salute prima di tutto.

– Ma i bambini possono stare chiusi per sempre?
Ha quel neo che gli ride addosso quando spalanca il viso. Sulla fronte in attesa che un’espressione lo faccia ballare. Un giorno lei ci ha disegnato intorno una canna da pesca, gli ha detto va’ che abbocca. E lui ha smesso di sentirsi strano per quella macchia ingiusta come il terzo occhio di un destino maldestro.
– Certo che no! In effetti, già prima di tutta questa orribile storia, la scuola era parecchio inadatta. I bambini stavano sui banchi, in aula, per otto ore al giorno. Poi tornavano a casa e facevano i compiti.
Prende la sedia gialla.
– Che cosa stai bevendo?
– Gin, amore: gin. Comunque… qualcuno aveva già cominciato a pensare a una scuola diversa, e così a un certo punto, io e qualche altra madre un po’ rissosa, ci mettemmo insieme e decidemmo che qualcosa bisognava fare. Contattammo quegli insegnanti che erano un po’ più aperti, fondammo un gruppo.
– Come si chiamava?
Adesso la donna ha un vuoto. Il gin scalda il torace in un rivolo che però non aiuta il ricordo.
All’inizio eravamo dodici, questo me lo rammento. E poi ognuna riuscì ad agganciarne altrettante, e altrettante. Avevamo due linee di lotta: qualche insegnante faceva lezione informale nei parchi pubblici dove alcuni bambini ascoltavano e poi rispondevano, o eseguivano operazioni e giochi didattici, condividevano storie, esperienze, facevano operazioni matematiche coi rametti e i sassi, inventavano racconti a partire da stimoli di vita reale…
Il piccolo sdraia la faccia sui gomiti, gli occhi come pozzi.
– Si poteva?
– Certo che no. Ma anche sì.

Il Governo aveva riaperto tutto, a quell’epoca, e la sola specifica era quella di non creare assembramenti. Da nessuna parte stava scritto che un adulto non potesse dire cose, e che dei bambini non potessero rispondervi. Gli racconta questo, le viene da sorridere, la scaltrezza di allora le torna tutta quanta in occhi infantili, fieri di quei furti in fondo leciti, audaci.
Lui s’è preso un labbro con le dita, lo pizzica come una chitarra. Qua e là gli torna la tazza, la donna va a prenderla, gliela mette davanti, dai, conta.
– E intanto, mentre qualcuno insegnava nei parchi, varie scuole private un po’… come dire? Sveglie?, che già avevano un progetto didattico fondato sull’esperienza e quasi sempre all’aperto, cominciarono a raccogliere fondi con campagne faticose ma dettate da incredibile volontà, sogno e fiducia. Così da diventare accessibili.
– Quindi riaprirono le scuole? Cioè… si tornò a scuola?
Ma lei sa non fu tanto semplice. Gonfia le guance, poi soffia fuori che ci volle un po’. Ricorda quei banchi a rotelle, tutti i soldi buttati per una finta rivoluzione. Lui se la ride, chiede se erano come gli autoscontri. Ma lei lo redarguisce, la chiama «la finta soluzione». I bambini trattati come bestie da sterilizzare, resi asettici: – Lo sai da cosa? Dalla paura di vivere.
Se un bambino si sentiva poco bene veniva isolato, bardato, in attesa di un genitore che lo prelevasse. A tratti carezza lo schienale, ritrova in quel gesto la consolazione per le ferite inferte a tanti piccoli da questa ingordigia sanitaria.

– Vedi, quello che noi volevamo evitare era di ritrovarci nella stessa situazione in futuro. E soprattutto, se proprio avevamo sacrificato i bambini tenendoli in casa, allora non doveva essere invano. Allora, quando la scuola sarebbe riaperta, sarebbe stata una scuola nuova. A qualcosa, Dio Santo!, a qualcosa doveva pur essere servita, quella pandemia!

Si è messa a contarle, le sottrae al bambino.
– Credo siano 55. Fammi vedere.
Smista quelle monete con le sue falangi gonfiate dall’artrosi, lo smalto verde s’è sbeccato, fa eco a quei prati che racconta in un vento.
Venere sbadiglia, poi fa uno scatto, corre verso un taglio di luce sotto al davanzale.
– Venere, Venere, qui, vieni qui… – lui se la prende in braccio.

E poi fu settembre.

Le lezioni ai parchi furono esperimenti frammentari tagliati qua e là da qualche timore, da cani che urlano, da quei tagliaerba comunali che riprendevano il vivere. Ma nel frattempo la campagna raccoglieva fondi, banche si dissero disposte a sponsorizzare il progetto, le borse di studio furono sempre più numerose. Le madri, intanto, le prime fondatrici, continuavano la loro propaganda, sostenute dai pedagogisti e dagli insegnanti. Almeno un terzo dei bambini era in grado di entrare nelle nuove scuole, in questa Didattica all’Aperto.

Furono prestati musei e ville, non serviva molto, l’essenziale erano bambini, maestre e sapere: il resto lo si creava, ci si ingegnava. Furono riconvertiti vecchi edifici, cascine, ma fu un restauro di poco disturbo perché gli spazi davvero utili erano i parchi e i cortili.

– Tanto che i lavori all’interno continuavano anche se i bambini avevano già cominciato la scuola. Loro fuori, gli operai dentro, una piccola area per volta, separata da quelle inagibili per garantire la sicurezza.
– E i bagni? E c’era anche storia? E c’era Educazione emotiva? E Educazione creativa? E arrampicata? A me mi piace quando facciamo Pensiero creativo: si pesca un oggetto e poi ognuno deve inventare qualcosa. Qualcuno ci fa un racconto, altri una ricerca sui materiali o un oggetto nuovo. Sai che l’altro giorno la Tiziana ha scelto un ditale e io non sapevo neanche cos’era?
Insiste ancora, se c’era questo o quello. Fa le domande che fanno i bambini, le sue ipotesi rocambolesche mentre tiene la gatta. Ogni domanda una pettinata alla coda.
– Non tutto, si andò per gradi. Servì un po’ di tempo per ammorbidire le teste.

Prima servì convincere i genitori più ortodossi che stare all’aperto era più sicuro. Poi che i libri si potevano sfogliare in un prato e i tablet consultare su una panchina, e che molte cose si imparano con altri materiali. Poi che la creatività era quella che ci stava salvando!

E così, via via… capirono anche che le emozioni sono la parte più meravigliosa dell’essere umano, e che valeva la pena dedicarci qualche ora.

Una finestra sbatte, si alza, la spalanca invece di chiuderla. Quando torna sulla sua sedia blu ha gli occhi che scappano.
– Perché piangi?
– Dovevi vederli. Dovevi vedere quei bambini.

I primi giorni i suoi figli non avevano voglia, non avevano capito. La diffidenza dei grandi è una vampata che dilaga: a volte chiedevano se era davvero così, adesso, la scuola. Tornavano a casa e facevano qualcosa di mai visto: raccontavano.

Una volta a settimana c’era il giorno della boccia.
– Ogni alunno scriveva in un biglietto un desiderio da esaudire a scuola. Poi si mettevano tutti quei bigliettini in una grande boccia, s’infilava la mano, si estraeva. È così che pian piano

la scuola ha cominciato a fare il contrario di sempre: si formava sulle idee dei bambini.

– Tipo Pensiero creativo?
– Sì, tipo: solo che serviva per insegnare agli insegnanti. Adesso non lo so, se c’è ancora…
– Abbiamo il muro.
È un grande pannello, dove i bambini scrivono i loro desideri e i sogni.

Si chiede come si sia potuti andare tanto lontani da questo principio e dalla vita, dal mondo:

se la scuola serve per vivere, perché vivere non serve per fare scuola?

Non è forse nel mondo, che poi vivremo? Vivremo nelle strade, nelle cose, o vivremo sulle pagine di un sussidiario? Se si studia il mare, si va a vedere il mare. Se si impara la matematica, è perché la matematica serve per vivere: e dove serve? Lì, si va a impararla. Il pianeta ha tutto ciò che serve per imparare il pianeta. E l’essere umano tutto quanto serva imparare sulla sua meraviglia.

– Se ce l’ho ancora, un giorno ti faccio vedere come si andava vestiti.
– Col grembiule, vero?

Sono 73 euro. Ha finito di contarli. Lo sapeva già, ma gioca a dimenticarlo.
– Lo sai che io a casa ho sette euro e trentacinque? Le tengo in una scarpa vecchia di quando ero piccolo. Sotto al letto. Ma adesso che ci penso forse farò come te con la tazza. La metto in cima al frigo. Tanto la mamma è bassa.
– Dammi qua. – Lei gli prende la mano, ci affonda tre monete da due euro. – Comunque in qualche modo ce la facemmo. In qualche modo che non smetto mai di ricordare. Di cui ringrazio me e quelle altre madri ardite, ogni giorno. E adesso va’, dammi un bacio e va’, metti giù quella gatta, che tua madre ti sta aspettando.

Pensieri rotondi



♥ Condividi se anche tu sei visionaria. Ogni innovazione nasce dal pensiero e poi diventa materia. Nutriamo i pensieri, apriamo le menti.

[Grazie per la foto a Mariagrazia Francot]

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 12

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      Maddalena

      Quella dove ho iscritto Isabelle è così, presto ne parlerò. Ora stiamo valutando se iscriverci anche Sarah, ma logicamente i costi non sono da sottovalutare.

  1. Federica

    Con sommo sollievo e piacere, mi ritrovo al 100% nelle sue parole, Maddalena, cui sono arrivata attraverso la pagina facebook di Artademia… per caso, certo, se il caso esiste. Sono una docente di scuola pubblica in aspettativa, che soprattutto si aspettava che la scuola, come dice lei, non buttasse l’occasione d’oro che le si è presentata. E invece tutto l’opposto, come ben sappiamo. Da un anno e mezzo circa sono soprattutto una madre, una madre in ricerca, una persona profondamente arricchita, più che cambiata, dalla maternità, che ha deciso di vivere senza più compromessi, lasciando meno spazio alla paura. Da qui la decisione di non tornare a scuola, di vivere appieno gli anni d’oro con mio figlio, di cercare occasioni in cui lavoro e vita, necessità e ideali, non cozzino. Anche io ho incontrato Artademia in questo cammino, per quanto non sappia ancora se rimarrà un nome o si rivestirà di concretezza. Per ora grazie per il suo sguardo lucido e così somigliante, almeno a quanto ho letto finora, al mio.

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      Maddalena

      Cara Federica, ciao. Le tue parole mi fanno doppiamente piacere: servono persone con la mente e il cuore aperto, e ancora meglio quando se ne trovano proprio in questo campo: che ha tanto bisogno di rinnovamento… Credo che troverai qui molti contenuti in linea con te, questo blog nacque per narrare di maternità ed emozioni, scuola, sfide educative, e adesso verte sempre di più sulla crescita personale e la gioia di vivere, perché, come te, sto cercando di vivere senza compromessi, con meno testa e più anima. Abbracciando il coraggio di una Vita che è sempre Vita, che vive anche quando vogliamo chiuderci. Spero di sentirti e ritrovarti, ho bisogno di gente come te, di persone aperte, che mi aiutino a toccare cuori. Grazie infinite, io sono qui. Quando vuoi. Goditi l’avventura meravigliosa di essere madre: il semplice fatto che tu abbia preso un’aspettativa già la dice lunga su come hai scelto di abbracciare la vita (senza nulla togliere a chi magari non può permetterselo). Ti invito anche a vedere i miei profili Facebook e Instagram. Un abbraccio.

      1. Federica

        Cara Maddalena, e io ringrazio te delle tue parole! Sono davvero contenta di avere scoperto il tuo blog, e sono anche curiosa di leggere il tuo libro, cosa che mi riprometto di farlo a breve (per la verità ho già troppi libri che mi attendono “sul comodino”… il punto è che mi piace anche scrivere, e il tempo, pur “non lavorando”, è contato). Mi soffermo sulla tua ultima frase: “Senza nulla togliere a chi MAGARI non può permetterselo”: sacrosanta precisazione, ma quanto vedo io è spesso anche la ferma volontà di non “volerselo” permettere, o la totale mancanza di dubbi a riguardo. Nessuno mette in dubbio il fatto che crescere un bambino sia un compito tanto delicato e impegnativo da richiedere tempo, tanto tempo, dedizione, energie e impegno, ad esempio. Si sono inventati l’espressione “tempo di qualità”… ma quale qualità può dare un genitore che vede i figli forse due ore al giorno fra mattina e sera, sempre guardando il cellulare o l’orologio, aspettando un weekend in cui è spesso così stanco da non riuscire neanche a godere del tempo che effettivamente avrebbe, senza considerare che se i figli sono in età scolare, soprattutto, lo stesso tempo andrà strappato ai compiti, alle commissioni, ai mille impegni? Sono domande che non riesco a non farmi, e senza puntare il dito contro i genitori, si badi bene. E’ l’intero sistema ad essere profondamente viziato all’origine, e credo proprio sarai d’accordo con me. E’ sempre al sistema che penso quando lancio strali sulla scuola, peccato che gli “individui” che la abitano (insegnanti in testa) non riescano, a volte per puro narcisismo, a metterla in discussione. E’ troppo doloroso, forse, un po’ come analizzare con occhio disincantato la nostra infanzia e accorgersi che i nstri genitori hanno sbagliato, e tanto, così come sbaglieremo noi. Devi sapere che, al momento di entrare in ruolo nella scuola pubblica, dovetti scegliere fra scuole medie e superiori (le chiamo così per brevità, tralasciando il fatto che le denominazioni sono scorrette!). Non ebbi dubbi: medie, sebbene le avessi sperimentate per la prima volta solo pochi mesi prima, con una sola classe. Mi ero accorta che alle medie i bambini-ragazzini erano ancora, come dicevi nel post di ieri sera, curiosi. Nonostante tutto, li vedevo ancora ingenui, appassionati, vergini su molte cose e pronti a lasciarsi incantare. Volevo essere l’insegnante che avrebbe parlato loro di Dante Alighieri o spiegato il medioevo per la prima volta, senza vedere una smorfia di noia e disgusto sui loro volti al solo nominare certi argomenti. Volevo capire cosa succede prima che diventino “grandi”, e come fare in modo che quella “scintilla” che dovrebbe sostenerli per tutta l’esistenza non venga soffocata. Da quando sono mamma ho però capito che dovrei “intervenire” ancora prima: quando un bambino entra nel sistema scolastico, anche solo a tre anni, è già tardi per molte cose. Come diceva la Montessori a tre anni un bambino è già un piccolo uomo che ha combattuto molte battaglie. Da qui il mio interesse, che condividiamo, per il “settore materno-infantile” e la volontà di essere “utile” in questo ambito così come lo sono stata, spero, e forse sarò, in quello educativo. E’ probabilmente vero che è “meglio tardi che mai”, ma quello che viene negato, tolto o viceversa “aggiunto” nei primi, decisivi, anni, non torna, o non se ne va, più. Ecco perchè ho deciso di fermarmi, di non tornare a scuola a settembre: per mio figlio, per me, per una nuova passione e un nuovo orizzonte. Ma la scuola resta lì, nei pensieri, da mamma e da prof. Mi arrovello, a volte penso potrei, dovrei tornarci, il prossimo settembre, e favorire il cambiamento. Più spesso mi dico che così tornerei a essere complice di cose che impiegheranno ere geologiche o forse non cambieranno mai. Come posso lavorare laddove non manderei mio figlio? In discussione, in fondo, ci sono due idee di Vita (la scrivo come te con l’iniziale maiuscola), non semplici metodologie didattiche o altro. La scuola che inserisce, che prepara alla società o quella che prepara a cambiarla, a pensarla diversamente. Mi piacerebbe che la scuola (tout court, senza bisogno di distinguere fra pubblica, privata, paritaria et alia) facesse questa seconda cosa. Ma siamo molto lontani, e il periodo che stiamo vivendo, pur avendo messo davanti agli occhi di molte persone le enormi contraddizioni e storture da sempre esistenti, ci ha forse riportato indietro di qualche ulteriore “era”.

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          Maddalena

          Come avrai capito, io sono stata una madre a casa, per tutti i miei tre figli. Ma è anche vero che il lavoro che facevo lo detestavo: non mi conoscevo, non sapevo niente di me, ma la sola cosa chiara era che volevo dei figli, e questo mi fu da bussola. Questo per dire che non posso giudicare chi sceglie diversamente: mi dispiace per loro, perché si perdono tante prime volte dei figli, gli anni migliori e più cruciali, la Vita pura, prima che gli ego (per dirla in termini di crescita personale) comincino a strutturarsi, coprendo la naturale disposizione libera alla vita. Ma è pure vero che se una donna si sente realizzata nel proprio lavoro, contando quando è rischioso perderlo o essere demansionate, si trova davanti a una scelta difficile. Detto questo, ho conosciuto anche io innumerevoli madri che il problema non se lo sono nemmeno posto. Capisco il tuo conflitto sul tornare a insegnare o meno, la tua descrizione trasuda passione, quella grinta che serve! Ma tornare a scuola vuol dire rendersi compici di un sistema che aborriamo…: credo che non esista la scelta perfetta. C’è quello che c’è e c’è quello che scegli. In ogni caso saprai portare la tua verità. Anche di me potrei dire che togliere due dei miei tre figli dalla scuola ordinaria sia vile: invece di cambiare quella, me ne vado. Ma intanto lotto comunque, cerco di sensibilizzare. Ognuno fa del suo meglio. Il vero “peggio” non esiste: il vero peggio è di chi non si interroga. Vedo che anche tu usi parole come “sistema”, sei un’outsider, un’innovatrice. Sto incontrando diverse persone così, e la gioia è immensa perché mi sento sostenuta, parte di una direzione più grande. Infine, meravigliose le tue parole, che in gioco ci sono due idee di Vita, due paradigmi opposti, una scuola per la società, e una scuola per cambiare la società. Sono completamente con te. Grazie. 🙂

          1. Federica

            Grazie, di nuovo, a te! Hai ragione: è bello sentirsi compresi, e parte di qualcosa di più ampio. Come potrai immaginare, mi sono sentita e mi sento molto sola, direi pure isolata, per la mia scelta (sia come madre sia come insegnante). I miei ex colleghi mi considerano probabilmente una pazza, forse si chiedono se il tutto sia dovuto alla paura del virus o, peggio, per la loro prospettiva, a idee “negazioniste”… Mi viene da sorridere (o piangere, dipende da come la guardi) a pensare alla loro cecità e (francamente insopportabile) ottusità, per cui un dialogo a riguardo sarebbe semplicemente impossibile, oltre che del tutto infruttuoso e inconcludente. Dici bene: ogni scelta, più o meno agita o subita, è storia a sè e io certo non condanno nessuno. Considero ormai utopico aspettarsi dallo Stato il consiglio di delegare il meno possibile l’educazione dei figli, dei concreti sostegni perchè almeno chi lo desidera li cresca senza fare salti mortali e aut aut, perdere il lavoro, venire demansionato ecc ecc… Il sistema si basa proprio su tutto ciò, e da destra e sinistra non vedo che agevolazioni basate sulla separazione dei genitori dai figli, dai primi mesi di vita in avanti. Ci voleva un virus per mostrare quanto il tutto non stia in piedi, se solo una ruota del meccanismo si inceppa. Per quanto riguarda il dilemma “dentro la scuola o fuori”… ti dico che come mamma non ho dubbi, come insegnante qualcuno rimane, o forse sono solo timori. Ho compreso da un pezzo che il margine di manovra in un sistema malato è sempre più ridotto, praticamente nullo, e forse ha davvero più senso, come dici tu, sensibilizzare dall’esterno, agendo su chi coi ragazzi ha a che fare, lottando per il cambiamento di prospettiva e per il risveglio delle coscienze… Mi piacerebbe farlo scrivendo: magari scrivere anche io (finalmente) qualcosa, aprendomi anche una prospettiva lavorativa o pseudo tale, che mi permetta di sfuggire all’insopportabile idea di scegliere fra affetti, Vita, e lavoro. C’è tanto da dire, tanto da fare, e non credo assolutamente che la battaglia sia persa in partenza. Dici che sono un’outsider e un’innovatrice… li prendo come grandissimi complimenti ma umilmente ti dico che per pensarla in un certo modo e agire di conseguenza basta rimanere lucidi e non sfuggire al mettersi in discussione. Sarà che prima di insegnare ho lavorato nella comunicazione e poi, date le dimmissioni, sono volata all’estero per 8 mesi, sarà che sono meno instabile mentalmente di altri ( 🙂 ) o avuto la persona di recepire gli stimoli giusti dagli incontri fatti lungo il cammino, fatto sta che non mi sono mai presa troppo sul serio nè mi sono mai sentita “arrivata”. Non ho mai avuto paura di invertire rotta nè di tornare sui miei passi. La maternità è stata un potente acceleratore in un processo che sono sicura si sarebbe svolto ugualmente…. uno specchio che mi ha confermato un’immagine che, per quanto ancora poco nitida, si poteva già intravedere.

          2. Post
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            Maddalena

            Eri già dentro un cambiamento di coscienza. No, non credo basti lucidità, puoi avere una altissima intelligenza, ma se hai il muro della paura, non vedrai oltre. La paura è uno specchio che riflette solo ciò che sta dietro, mai quello che c’è oltre. A proposito di sostegni alle famiglie noto anche io che i (pochi) sussidi sono sempre per agevolare la madre a lavorare, non a stare a casa. In Norvegia (dove vive mia sorella) danno invece un reddito mensile alle donne che scelgono di stare coi figli nei primi tre anni di vita. Ecco, quando sento tante italiane che si lamentano che qui lo Stato non fa niente, sono d’accordo ma vorrei anche chiedere loro: okay, da domani bonus di mille euro al mese per chi sta a casa coi bebè. Chi accetta? Si rivolterebbero tutte, parlerebbero di maschilismo. Quando, di fatto, si tratterebbe di un diritto, non di un’imposizione.

  2. Federica

    Sono perfettamente d’accordo con te, ho sentito più di una volta delle madri esclamare, in tutta sincerità, che non starebbero mai a casa coi figli “a tempo pieno”, di essere rinate col lavoro, di riposarsi quando ci vanno ecc… Niente da recriminare, sono scelte ed è giusto che il diritto al lavoro femminile (e non solo) sia più che garantito (cosa che comunque non accade!!!)… Il punto è che il contrario, che poi sarebbe il meglio per il bambino (!) non viene neanche messo in conto. Fare il genitore è qualcosa di marginale, da fare nei ritagli di tempo, sembra questa l’idea (e gli effetti sono tanto evidenti quanto devastanti). Dici bene, parlerebbero di maschilismo, quelle (e quelli) che propugnano un finto femminismo che mi fa venire l’orticaria solo a pensarci. A proposito di questo: abbiamo in comune anche la “passione” per l’allattamento 🙂 Io nei primi due mesi ho avuto talmente tante sfighe da aver preso una laurea sul campo, sfociata in un corso per diventare mamma “alla pari” e aiutare mamme e bambini a riprendersi questa competenza purtroppo ormai svalutata e svilita

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      Maddalena

      Bellissimo che da tue sfide di allattamento sia nata un’occasione! E’ il modo più positivo e creativo di vivere… Io sono stata invece molto fortunata in fatto di allattamento, mai avuto problemi. La terza figlia è stata attaccata a lungo, avevo un po’ di vergogna, autogiudizi indotti dalla società, dai genitori. Mi sembrava anche che se non ero io a impormi, la piccola non avrebbe mollato mai. Ma era un problema mio di insicurezza, quando nei fatti il momento del distacco è poi arrivato naturalmente, proprio come molte donne sagge dicevano: e così, abbiamo smesso definitivamente quando ormai aveva quattro anni!

  3. Anonimo

    Cara Maddalena, riesco a risponderti solo oggi, ora che sei affaccendata con la questione covid, a quanto ho letto… l’importante è che stiate tutti bene, mi viene da dire. Sono stati giorni piuttosto intensi anche per me, in cui ho trovato una collaborazione editoriale – a gratis, of course! – per scrivere di maternità ed educazione, cosa che mi ha dato la spinta definitiva per aprire a mia volta un blog… dacci un’occhiata se ti va, questo è l’indirizzo https://federicavilla87fv.wixsite.com/dontwasteasunnyday (credo in via di cambiamento con acquisto del dominio, a breve). Anche io spero allatterò “a termine”, tornando a quel discorso. Capisco i tuoi dubbi ma hai – avete – fatto bene, benissimo!

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      Maddalena

      Ciao cara, hai fatto bene, servono voci aperte, chiare, alte! Anche il titolo del blog è bellissimo. 🙂 Sono già passata, ma ci incroceremo di continuo. Forza, che gente tosta ce n’è. :*

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