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Altre Verità

Country roads

CERTE COSE SEMPLICEMENTE SMETTI DI FARLE. ANCHE SE NE HAI ANCORA BISOGNO

 

IMG_4234_pe_wprnLa cantavamo, a volte insieme, lei da un lato io l’altro del marciapiede, la cartella scalciava sulle spalle. Le due del pomeriggio.

La suona qualcuno, adesso. Di sopra. Quello che ha il piano. Piazzato nel mezzo del salone, sopra le nostre teste. Non lo suona mai. Invece stasera gli prende la musica, imbraccia una chitarra, però. Qualcuno canta. E io ci faccio la seconda voce, dietro, il coretto come facevo con la mia compagna delle superiori.

Perché non vai di sopra?

Me lo chiede una voce. La madre interiore. Che voce ha, la tua? Quella che ti consiglia le cose, che ti dice cosa fare, che la scuoti, quando sei sotto il sole e ti arrovelli per un dubbio, e lei se ne sta al fresco sotto un ombrello di frasche, di paglie pendenti. Quella. Quella che chiamano coscienza, i più, gli spiriti religiosi, o semplicemente sognatori.

Non ci andrei. Gioco col pensiero. Mi metto un paio d’infradito. Non so perché le infradito, non fa nemmeno quel gran caldo. Ha piovuto che dio la mandava oggi, maggio tenta la strada, le dice avanti, all’estate che freme, ma quella si piglia i gavettoni di questo cielo, se ne torna da dov’è venuta. Si tiene indietro, un po’ indietro, ogni giorno fa come al nord Europa, sudi al sole, all’ombra c’hai la pelle d’oca e i peli ispidi.

Salgo le scale, le ascelle mi sudano. Va bene, vado. Busso. Non mi sente. Mica mi sente. E adesso penso che sono in due. È rimasto un posacenere, qui fuori, sta sotto al gradino che porta alla seconda parte del ballatoio, il seguito degli appartamenti annicchiati nel sottotetto. Il suo l’hanno fatto bello alto, c’ha messo il pianoforte, se lo ricordo bene la sola volta che lo vidi è pure a coda. Il letto è sul soppalco, sotto il lucernario Velux, la madre viene a tenergli la casa, anche se è un po’ che non la vedo.

Apre. Ciao Ale. Aspetta che parlo. Aspetta che domando qualcosa, il verbale dell’ultima riunione condominiale, un pacchetto di zucchero. Una firma per qualche circolare in cui mettiamo nero su bianco che le spese per l’androne devono pagarle anche quelli di là, dell’altra parte della corte.

“Chi è che suona?” gli chiedo.
Il pianoforte non ha più la sua coda, forse l’ha persa, se l’è venduta per una chitarra.

Ora altri due occhi neri mi fissano, dietro i suoi capelli un po’ alti, sempre un po’ troppo tutto: troppo neri, troppo folti, troppo lunghi. Lo penseresti più curato, è uno di quelli sempre in ordine, il bermudino scuro, due stecche di gambe, la piantina all’ingresso di casa, una panca per chissà chi. Una grata ad ogni irraggiungibile finestra. Lo zerbino sempre pulito.

“Lui è Dan.”
Il ragazzo si alza dal sofà, viene, mi stringe la mano.

No niente, gli dico. Guardo un po’ l’uno, un po’ l’altro. Che fai qui?
Dice che l’hanno segato, al lavoro. Cazzeggia.

“Era Country roads, quella di prima?”
“Sì, la conosci?”
“La cantavo.”

Allora entro. L’altro passa la mano sulle corde, mi dà la nota.

Ripenso a quelle sere dal collega di cui mi ero invaghita, a come tenevo la nota quelle volte. Come la mano di uno sposo, come la testa di un neonato. Ferma, alta. Non potevo lasciarla cadere.

Ale mi guarda. Siamo lui e io, che cantiamo. Dan suona, spazzola le corde, le pizzica, le rilascia.
“Canti bene.”
“Anche tu.”

Non devo pensare alla vergogna. Ai suoi cuscini allineati sul divano accanto al chitarrista. A quel finto guizzo creativo di due mattoni lasciati a vista. Ai miei figli di sotto, alla madre che sono. Che potrei essere pure la sua, di madre. Quasi.

Credi che potrei farlo?

Mi servirebbe. È un sacco di tempo che non canto. Che non apro le finestre nella sera e me ne fotto del mondo e ci sputo sopra la mia voce come viene, come facevo in via Watt nel quadro di luce che il lampione coricava sul parquet.

Certe cose semplicemente smetti di farle. Anche se ne hai ancora bisogno. Anche le sere che basta un piano di scale. Un solo piano di scale. E allora ti passerebbe l’impressione amara che tutti corrano, da qualche parte, e arrivino, sempre prima, sempre un passo più in là. A te basterebbe un piano di scale.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 4

  1. giomamma

    Quando smetto di leggerti, tiro sempre un sospiro. E’ un sospiro a metter dentro, quello che esce è perché non ci sta, di più.Non so cosa basterebbe a me a non sentirmi più in dietro, ad arrivare anche io prima, un passo più in la. Ti ho letta e ho capito che non lo so. un bacio

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  2. Silvia Fanio

    Ho visto un film poco tempo fa “i sospiri del mio cuore” di Myazaki.
    Ecco. Questo post, forse per la canzone Country Roads, me l’ha fatto tornare in mente… 😘

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