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Altre Verità

A mia madre

LEI CHE LE HO FATTO LO SCHERZO DI NASCERE COME IL SUO DIO: IL 25 DICEMBRE. E NON HO MAI SAPUTO SE ABBIA PENSATO NON C’È DATA MIGLIORE, OPPURE LE FOSSI SEMPLICEMENTE COSTATA UNA SANTA MESSA IN MENO

 

A mia madre.

Ai suoi capelli che sono la prima cosa che ricordi di aver scritto di lei. Mio padre vagava intorno alla scrivania dove il quaderno di scuola restava zitto.

“Descrivi la tua mamma.”

Era un compito così banale da arricciarmi le labbra, per qualche ragione non avevo niente da dire.

Mio papà deve aver pensato che fosse ingiusto, quel mio mutismo selettivo sul foglio, mia madre aveva cresciuto tre figli e un quarto sarebbe arrivato, senza mai sporgersi fuori da noi, non fosse per quell’altra cosa che informava di sé tutta quanta la sua esistenza: Dio. Doveva pur esserci qualcosa da dire. Ma a me non veniva niente.

A mia madre. Che poi in qualche modo trovò come accomodarsi in quel quadernino, ma impiegò anni forse non ancora finiti per accomodarsi in me.

Lei nelle sue gambe sul divano a due posti, il giornale del dopo pranzo, quando ha finito di rassettare la cucina, oppure i piedi esili sullo sgabello del pianoforte, i collant contenitivi color carne che poi si sono fatti neri, che ormai hanno perso il loro imperativo e magari lasciano il campo per un paio di fuseaux.

Lei nei cruciverba seduta su un muretto fuori casa in montagna, il caffè di cui fa bene la schiuma come ha imparato non so dove, il suo grido stabile “Dino ti faccio il caffè?”, che sembra una domanda e invece non lo è.

Lei che ha un naso come una pecca: duro, dritto, a farmi mille volte paura senza accorgersi. Ho dovuto giustificare molte azioni, molte scelte, credendo di dover obbedire ai suoi lineamenti.

Lei che quando ride forte riesce a non fare rumore: le risa le vanno tutte in acqua e sale, poi prende un fazzoletto di cotone – non l’ho mai vista con uno di carta – e acchiappa quel rivolo, però le sono rimasti gli occhi belli, e il naso lo dimentichi.

Lei che aspettava il mio pranzo al ritorno da scuola, e stava lì. Erano gli anni della trasmutazione, mi arrabattavo tra l’aderenza a quella che credevo volesse, e la me che cominciavo a intuire. Ero questa: grandi battaglie e poi davanti a un piatto non proferivo una sillaba. Se avesse saputo: che avevo paura. Se avesse saputo che forse era colpa di quelle braccia conserte, che lasciavano l’intreccio solo per posare il piatto sotto il mio mento. Se avessi saputo cosa vuol dire: essere madre e non sapere di fare paura forse è difficile quanto esserne consapevole.

Lei che un giorno mi racconto davanti allo specchio del corridoio, la porta del bagno è aperta, è lì che si pettina i capelli, pulisce il lavandino, mi dice: “Tu ti fai troppi problemi, forse gli altri non ragionano così tanto.” E per la prima volta non c’è giudizio, è un po’ un piccolo altare, anche se punge, questa mia diversità. E un’altra volta sente le mie capriole, le crisi d’identità di quegli anni, ma a te cosa piace fare?, le dico scrivere: “Allora scrivi.”

Lei che preparava i budini di crema e cioccolato nelle coppette rosse e quando aprivo il frigo e le trovavo a sorpresa, il giorno diventava speciale. E poi scrutavo, di quattro coppette, quale avesse più cioccolato, per esser certa di accaparrarmela.

Lei che le ho fatto lo scherzo di nascere come il suo Dio: il 25 dicembre. E non ho mai saputo se abbia pensato non c’è data migliore, oppure le fossi semplicemente costata una Santa Messa in meno.

Lei che si abbronza un sacco, non ha un filo di buccia d’arancia e di capelli bianchi ne ha al massimo venti: e non si sa perché queste cose non me le ha trasmesse.

Ci somigliamo nelle polemiche, nell’ultima parola che ci contendiamo come la grande vetta di inutili escursioni.

Ci somigliamo nei piedi a mollo nei torrenti, nelle gite in montagna, nell’amare i bambini.

Lei che difficilmente mi dà ragione eppure le faccio chiamate di ore da che sono mamma, e siamo due madri. Entrambe nel meglio che possiamo. E io comincio a capire un mucchio di cose.

Eccolo, è questo, adesso: quel tema delle elementari.

A mia madre, per il suo compleanno.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 7

  1. una mamma zen

    Sai questo post mi ha molto emozionato. Sono anni, una vita intera, che cerco il coraggio di scrivere di mia madre. Ma è come un ago pieno di esche, ne tiri fuori uno e vengono su cento. “tu ti fai troppi problemi” ah, quante volte me lo sono sentito dire. Oggettiva verità forse, ma segnava indelebile la sua incapacità di accettazione. Un abbraccio

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      Maddalena Capra Lebout

      Credo sia inevitabile una certa dose di conflittualità o anche solo difficoltà con la madre, per chi è femmina. Anche io ho avuto spesso la sensazione che non fosse possibile riuscire a scriverne “pubblicamente”, eppure non è indispensabile districare gli ami: ne afferri uno, quello più grande, o semplicemente il primo su cui fanno presa le dita. Il resto arriva.

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          1. una mamma zen

            Il blog dovrei trattenermi per non essere fraintesa da chi lo potrebbe leggere e mi è vicino (magari arriva pure a lei, e no, per carità) ma anche da sola ho provato e il risultato è solo una marea di giri mentali senza grande chiarezza… Forse non è ancora giunto il momento.

  2. Elisabetta

    Secondo me, quando due persone si assomigliano tanto, guardandosi, non si accorgono di questa somiglianza. Anzi, tendono a scontrarsi ancora di più, si sentono uno l’antitesi dell’altra. Anche a me non piaceva parlare dei genitori a scuola, spiegare il lavoro che facevano… forse perché non erano una semplice segretaria e un meccanico, per esempio, dove bastava dire una parola e il discorso era chiuso… ah, comunque io sono nata il 22 di dicembre… diciamolo pure, che sfiga sempre un regalo solo! Un abbraccio Eli

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      Maddalena Capra Lebout

      Ciao Eli, in parte hai ragione, su certe modalità di “confronto” e discussione mia madre e io siamo simili, ma di temperamento e “animo” siamo molto diverse. Per il compleanno a me non pesa la questione regali: mi pesa, e dannatamente, non avere il mio podio personale, il mio momento, come tutti hanno il loro, perché io stessa (quindi non tanto i familiari) sento la mia festa mescolata al resto, impacchetto regali come tutti, faccio auguri come tutti. Ecco: “come tutti”. E’ lì, il fastidio.

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