Tutti giù per terra

La chat. Si è salvata dall’emorragia dei Buon Anno!, dalle piccole esplosioni di fuochi animati, e adesso attacca con gli annunci virali.

C’è la varicella. Oddio. Sì, il mio ieri aveva dei puntini. Il mio le pustole. Incrocio tutte le dita! Chi mette qualche punto esclamativo, chi le faccine itteriche degli emoji. Quando avevo appena scoperto la gravidanza c’era stato l’asilo chiuso per assemblea, su questa stessa chat le madri in delirio, oddio che disastro. No guarda, i veri disastri sono altri. Vorrei tornare a quel guaio, mentre davanti alle apparizioni puntiformi sui visi dei bambini altrui penso uguale ad allora: i veri guai sono altri.

La prospettiva nella vita è esattamente come quella delle vie, degli scorci dei pittori e dei fotografi. È un’inquadratura. Tu ti sposti e cambia tutto.

Per quello ho scritto «giro girotondo casca il mondo casca la terra» in apertura del mio libro. Per questo siamo tutti giù per terra.

I bambini stanno bene, Sarah ha fatto un disegno incredibile: c’è un filo rosa, questo è vero, è di lana, rubato a un gomitolo che papà l’aveva portata a comprare dai cinesi. E poi ci siamo noi. La prima figura è il bebè: sorride. Il filo fa un’asola attorno a quel piccolo in fasce che racchiude un cuore, due scritte: BUM BUM. Poi sale, circonda me e papà: abbiamo i denti che zigzagano le bocche nella paura. Quindi circonda un bimbo triste, due occhi chiusi da un tratto blu come il resto di questa figura. E una bolla incerta, che trema e scende: è il piccolo che scivola via, dice. Infine mamma e papà piangono, il filo rosa passa attorno a loro e si chiude sulla terra e la scritta BABY. La sepoltura. Non ne parlano, nemmeno Mathias e io ne parliamo molto, così ci sembra. Però Sarah ci dice, ieri: “Basta parlare del bambino!”

Qualcuno parla di cicli di vita. Non sono sicura che mi piaccia. Anzi direi l’opposto.

Il concetto di ciclo presuppone un inizio e una fine.

Adesso quella fase si chiude. Come nei Capodanni. Preferisco ragionare per progressioni, per flow, scorrimenti.

Se pensi al viaggio niente comincia. Ma nulla finisce.

Siamo solo girotondi, un po’ si cade, un po’ si gira.

 

***

 

Diventi molto sensibile al dolore degli altri. Diventa che ogni solco sul loro orto è un tuo solco, si mette accanto alla tua ruga e non lo so se è un bene: l’unione non fa la forza, fa da amplificatore. Due minuti fa su Facebook c’era il Buon Anno dedicato a chi non c’è più. Basta un piccolo cenno, come questo, e dentro c’è il boato. Una specie di stadio feroce.

Tre ore dopo, però, prendo il pennello e ritocco là dove il muratore ha fatto quello sbrego per issare il condizionatore, le bambine già litigano per chi prende il pennello, ho recuperato un vasetto della vernice necessaria, riposava sul pensile in bagno dacché abbiamo questa casa. Dalle prime tinte a questi stessi muri. È bastato rinvenirla un po’, salgo sulla scala, le ragazzine addosso, pesto mani e sento urla, spostatevi! Fisso il nastro carta, faccio un lavoro di fino. Poi scendo dalla mia posizione da arbitro del tennis, do alle due giocatrici il loro turno, le faccio rattoppare uno spigolo che suda ruggine, un po’ per uno sempre attenta a dividere bene, tutto a metà. Tutto conteggiato. E sulla merenda infranta da un finto brownie finito ho lo slancio massimo di queste ultime ore: – Li facciamo noi, dai.
– Cosa?
– I brownie.

Riprendo a fare cose. Quelle da famiglia, da festività. Quelle cazzate da cartolina che stavo snobbando ultimamente, nella mia rivincita per me stessa. Che strano effetto, tutto questo giro: alla fine dove torni, Madda? Dentro a un carosello di figli e una ciotola. Un guanto da forno. Ma ho anche scritto, il libro è quasi pronto.

Ritrovo gesti e minuscoli desideri, sussurrati come segreti. Ed è sorprendente:

la gioia esiste, però non scaccia il dolore. Ci si siede accanto.

(3 gennaio 2019)

 

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