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Maternità

Una solitudine

Nessuno mi aiuta
sono crollata
sono stata a letto e non ho dormito
solo, forse, venti minuti
poi la Isa ha tossito e mi ha svegliata
si girava e rigirava e io stavo sveglia.
Mi lacrimavano gli occhi
alla fine, distrutta, mi alzo
mio padre non ha chiamato, vuol dire che non poteva
la MG non poteva
e ovviamente doveva continuare a piovere.

Sto di merda: naso, tosse, non riesco a scatarrare
esco, devo mettere il parapioggia sul passeggino
il solo ombrello che funziona ce l’hai tu in macchina.
Prendo quello blu dai rami spezzati
spingo con una mano, zigzago
m’inoltro nella calca, sotto quel forte lampione solitario dell’inverno.

Arrivo, Patrick sta già piangendo. La sua insicurezza che non perdona, non dà margine
al parapioggia, al polverio delle voci e delle gocce, ai limiti di una madre.
Lo vedo
non mi vede
continua a piangere
e io non so dove mettere Isabelle
nessuno mi lascia passare.
Sto in mezzo a un grido di folla e sono sola.

Lo chiamo
grido
di nuovo non mi vede perché si aspettava forse la MG
invece sono io, mi sono messa quel cazzo di cappello USA
ma sotto le teste ombrellate di tutti mi perdo
come una piccola biglia del cazzo
e grido
ancora
Patrick!
Dovrei avanzare e non posso, non c’è un varco per il passeggino, tra tutti quei genitori affannati.
Una madre dietro che era venuta apposta, “sono qui per prendere i compiti”
immagino avesse il figlio malato
poi quelli che prendono il proprio… si muovono piano
sono rallentatori di sé stessi
e io lì in mezzo
finché una donna si accorge: “Vai, lascia qua!”,
allora blocco il freno del passeggino, faccio due passi più avanti
due
di più non si può.

E lui arriva
la cartella che gli somiglia
accasciata
stanca
piangente
gli spallacci tonti umidi e cadenti
gli arrivano ai gomiti
e io non dovrei
e invece m’incazzo.
Poi siamo lì come piccoli coglioni bagnati,
come i greggi.
Quando vedo Sarah lei non mi vede
di nuovo, fottuta dall’ombrello blu.
Poi mi scorge, ma la sua maestra no
non la lascia.
Mi sporgo ma la folla ondeggia apposta, quasi
la testa a destra, la folla a destra
la testa a sinistra, la folla a sinistra
devi aspettare la congiunzione astrale
e alla fine arriva
con quella sua luce che il lampione per un po’ s’è messo zitto in un canto.
E io faccio la cosa più bella per me e la più brutta per una madre:
scelgo me.
Dico loro, dico chiaro: nessuno mi ha aiutato. Sto male, non dormo, piove, Patrick piange. Nessuno vede la fatica che faccio.

Veniamo via come viene questa pioggia
piccola e insulsa
senza grandi rumori
eppure un umido che dilaga.
Poi le scarpe, uno alla volta, otto scarpe da levare e asciugare.
La Isa è scesa qui prima della porta, l’ho fulminata. Sarah la raccoglie sulle scale, fa la sorella grande. E io penso che è fortunata, la Isa. Che mia sorella e io ci siamo sempre scornate. Che se mai mi ha difesa da mia madre io non me lo ricordo. Che ci amiamo adesso. Adesso, ma da adulte.

Non possono sgarrare, l’hanno capito.
Entrano e non fiatano. Anche la Isa adesso è mansueta, sembra il pony che tiravamo st’estate,
“I bambini li aiutano le mamme. Ma chi aiuta le mamme?”
Adesso sono anch’io una bambina. Mi sono fermata fuori, loro sono già dentro, lavano mani che sanno di dover lavare.
Guardo i cespugli. I posti auto vuoti. Il tuo. Penso all’ombrello buono rimasto nella tua macchina. Penso se basta come scusa, per incazzarmi con te.
Provo di nuovo a respirare, riprendere le misure. Ma a me non mi basta, quella cosa lì.
A loro l’ho già detto: sono arrabbiata, quindi adesso ho bisogno di stare un attimo da sola. Come quando vi do un piccolo tempo per calmarvi.
Faccio su e giù, recupero stracci per salvare il pavimento lavato di fino tre ore fa dalla donna.
Per metterci su un passeggino zozzo.
Ogni azione è scandita da insufficienti colpi di tosse.
La pazienza che ho avuto tutta la settimana, notte insonne dopo notte,
adesso se la ride, sembra appesa lì sopra, sul ballatoio, dove stasera le bambine non vanno perché piove ed è buio.
La pazienza è la virtù dell’ottimismo. Io non ho né l’una, né l’altro.
Adesso non posso nemmeno pensare che tanto poi c’è il weekend. Adesso penso e se ancora non dormo che cazzo faccio?

Non ti telefono per non romperti le palle.
Poi ti scrivo un fiume.
E alla fine capisco.
Il mio tempo per me è diventato questo. Parole.
E anche tu l’hai capito.
Che da un messaggio su skype ci esce un post
chissà a che punto sei rimasto a leggere.
Spero molto indietro.
Ché ormai sei la scusa di un lento calmarmi.
(Forse)

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 4

  1. Stato di grazia a chi?

    Ci sono giorni così. Punto e basta. Lo sappiamo. Giorni che cominciano già quando siamo bambine o ragazze, in alcuni casi. Grandi burroni di solitudine.
    Io faccio la conta, anche se con vani risultati alle volte, di quello che ho e di quello che potrei non avere. Conto mio padre e mia madre, una sorella, un marito e una figlia.
    Cancello le cose brutte che mi sono capitate. Le depenno. Non le voglio vedere.

    Per fortuna, arriva domani. Arriva sempre.
    Alle volte, quasi per compensare, il domani è molto più lieve.

    1. Post
      Author
      Maddalena Capra Lebout

      Per me la solitudine quando sei mamma è più pungente… è questa responsabilità senza sosta. E’ uscire a prendere i figli in una giungla di ombrelli perché non ho trovato nessuno che potesse farlo per me, mentre sono malata, per esempio. Aspetto il domani ‘più lieve’, intanto però sclero…

  2. Pingback: Siate gentili con le madri - Pensieri rotondi

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