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Altre Verità

Tuttavia

IO PREFERISCO IL SILENZIO. O, SEMMAI, IL BENEFICIO DELLA PANCHINA

 

girl-1600363_pe_1_wprnGentile  Maddalena,
la ringraziamo per averci inviato il suo scritto…

La mail mi arriva a cinque fermate dalla mia destinazione. Circa quattro minuti dalla seconda lezione di mindfulness della mia vita.

Sono seduta davanti, in uno di quei sedili per obesi. Nel tempo minimo di un millisecondo, il primo pensiero è come farò a concentrarmi, con l’animo che sgambetta, l’euforia che scalpita sotto la pelle?

Sono giornate senza capo né coda, non lo sapevi, ma questa mattina qualcosa si stava preparando per te, bastano poche parole e la vita ti cambia sotto il naso. Sento l’aria di un volo, sono già nel futuro, penso già al ricordo che avrò di questa piazzetta di questa mail, del momento.

È un pensiero così veloce da non formularsi se non in una sensazione, rapida, tempestiva, così breve da schiantarsi all’istante su una parola inerme: tuttavia. La prontezza del colpo d’occhio. L’efficienza dell’esperienza.

… tuttavia dopo averlo attentamente considerato non riteniamo che possa trovare una collocazione all’interno del nostro piano editoriale. 
Le auguriamo le migliori fortune editoriali e la ringraziamo per avere pensato a XXX.
Cordialmente
La redazione

Il pensiero si riformula subito. Mindfulness, consapevolezza. Come farò a concentrarmi, con l’animo che ciondola ubriaco, la delusione che grandina sotto la pelle?

L’autobus è fermo al semaforo. Il chiosco dismesso delle angurie. Due kayak muoiono sul tetto, sopra la ruggine dei tondini. Magari c’è qualcuno lì dentro, in quelle canoe magari una famiglia di uccelli ci ha fatto il nido.

Quando scendo c’è il solito slargo con la fontana al centro. Le panchine.

Vedi il fatto è che io una volta mi svaccavo sulle panchine, la musica pigiata nelle orecchie, la gente mi guardava, ma me lo potevo permettere. Abbandonata e stesa come un barbone, mi guardavo il cielo, ed era meglio che guardarsi dentro. Alla fine dentro ci vedevi meglio, capovolta così. Una volta potevo essere randagia, sovversiva, fare a pugni. Stravaccarmi. Adesso sono una signora di mezza età, mica basta un piercing al naso a darmi il beneficio della panchina. Adesso che faccio, quando la vita mi sputa addosso?

Ciao. Grazie. Le tengo la porta. Una del corso, non la ricordavo, ha la faccia scialbetta, una voce esile che basta una mosca per magnarsela. Oggi una mosca mangia anche me.

Dentro siamo diciotto, materassini naufraghi sul finto parquet. Qualcuna si è portata una coperta, sembrano tanti clochard in attesa di riscatto.

Respirazione. Si parte da lì.
Fermarmi, adesso, è come interrompersi a metà quando stai facendo pipì.
– Inspirate ed espirate. Non dovete fare altro che osservare.

Io sto seduta su una sedia, invece. Ho provato quella cosa del loto, una volta, i menischi non erano d’accordo. Spunto sopra la massa. Sopra questa nebbia di occhi chiusi.

Respirare. Non pensare ad altro. Quando un pensiero arriva lo lasciate lì, basta riconoscerlo, non fare nulla, tornate al respiro. Con gentilezza. E curiosità.

Posso piangere?

Non giudicate i pensieri, è normale che arrivino, non state sbagliando nulla. Tornate ogni volta a concentrarvi sulla respirazione.

Io non giudico il pensiero. Non è un pensiero, è un sapore. E un sapore come lo trattieni? Io non mi sento di sbagliare se arriva. Io mi sento sbagliata a rinnegarlo, a lasciarlo lì, inascoltato. In questo momento sarei fuori, a zonzo per le vie che diventano scure, sotto i primi lampioni del giorno che si arrende, una sigaretta e via. In braccio a quello che viene.

Non sono abituata a disobbedire a un’emozione. Dove la metto? Va’ che quella mica se ne va. Mi respira dentro, viene con me.

– Scegli. L’importante è essere consapevoli, e poi scegli: di concentrarti sul respiro.
E ridai. Io scelgo: scelgo lei.

Respiriamo.
Qualcuno sbadiglia, altri s’affossano. L’altra sera qualcuno russava. Giuro.
Quanto cazzo dura?

Non c’è nessuno che mi faccia un guizzo dentro, così, al primo colpo. Poi c’è lei, arriva tardi, lei mi piace, è una ragazza stressata, l’altra volta era il suo quel cellulare trillante che per due ore mi sono trattenuta dal mandare affanculo. Però c’ha la faccia da piccina. E pure una piccina: era a casa con la tata, ho pensato che allora potrebbe leggere il mio blog. Lo vedi come incaselliamo facile? Dio come corre la mente: tu sì, tu no, tu sei troppo grossa, tu sembri sporca, tu russi, tu sei troppo timida. Tu non hai riso alla mia battuta.
Tu, invece, potresti leggere Pensieri rotondi. Tu mi piaci.

Adesso smetto, respiro e basta.

– Dove sentite di più l’inspirazione?
In bocca, ce l’ho socchiusa, come un pesce.
– Portate la mano dove l’avvertite di più.
Se mi porto la mano lì soffoco. La metto sulla pancia.
Posso piangere?

Mi scompongo, ogni tanto, sollevo un braccio dall’inerzia dell’immobilità, confido che tutti hanno gli occhi chiusi, nessuno vede. Mi asciugo il bordo dell’emozione, prima che rotoli giù.
Quanto cazzo dura?

– Sentite l’espirazione.
E ridai. E suona sti cimbali, cazzo.

Poi il corpo. A terra, ognuno sul suo materassino, esercizi di stretching prestando attenzione alle sensazioni del corpo. Questo va meglio. L’emozione si sarà offesa che sta volta non la prendo al volo. Sono occupata, adesso, sono una sega di quarantenne che per due posizioni di stretching sente già tutto indolenzito. Chiodo scaccia chiodo: muscolo scaccia cuore.

Quella là sta seduta come me. Anche adesso che io sono giù, uniformata alla massa, finalmente uguale a tutti. Quella sta sulla sedia rossa che l’altra volta era mia. Va bene. Non è troppo giovane né troppo signora. Si può fare. Ha pure un bel nome.

Poi corro. Quando esco di lì io corro sempre, recupero dal freddo che ho preso stando immobile. Ma stasera corro di più, ché c’ho da recuperare quell’emozione là. Perché alla fine due lacrime mi son venute, cadevano in gola che sembravano ghiaccio. Come le stalattiti dei nevai. Ma solo due. E adesso mi cerco le altre, prima che mi fa fuori nella notte. Perché la rabbia e la pena sono così: non si dimenticano mica di te.

E allora penso: sarà una mail-tipo, ci cambiano il nome e basta. Però gentili a rispondere. Gentili sti cazzi, meglio il silenzio, nel silenzio non ti senti mai fallito. Puoi sempre credere alla sfiga. La sfiga è un’ottima risposta. Un mucchio di volte. E poi puoi odiarli. Invece c’ho pure la beffa che sono stati gentili.

C’è un pullmino di disabili, vanno al ristorante, la cameriera sulla soglia dice che gli han riservato un posto al fondo, dove c’è più spazio.

Ecco.
Finirò col fare la badante. Una badante che scrive poesie.

Sull’autobus la pena è già cambiata, è già mutata in scazzo. La bottiglietta tra le mani, la borsa come una refurtiva, stretta alla pancia. Non mi riesce più nemmeno la delusione. E poi abbiamo fatto esercizi noiosi, e si parla troppo. I soliti italiani.

C’è meno gente, guardo il cranio pelato del conducente, guardo il vetro, i riflessi. E chi ti vedo? Una del corso. Una di quelle che mi piace meno. Spero non mi abbia vista. Se io vedo il suo riflesso… allora lei vede il mio?

Ché non c’ho nessuna voglia di conversare e fare finta che ci interessiamo a vicenda. Trovare qualcuno sull’autobus è sempre una fregatura. A meno che non sia l’uomo della tua vita.
Sta seduta sulla fila di sinistra, a ogni fermata è ancora su, stai a vedere che abita la porta accanto.

Poi guardo lui, la rosa rossa ben confezionata, penso alle sere di ognuno, ognuno alla sua sera.

Magari lei di lavoro fa l’editor in qualche gruppone, il dirigente letterario, il responsabile editoriale. Magari la nostra idea di sfiga è opposta a quella che si è fatta la sorte.

A tre fermate dalla mia lei non c’era più. Neanche il ragazzo. Nemmeno la rosa.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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