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Altre Verità

Sono tua zia

TI CANTAVO BUONANOTTE FIORELLINO, NEL SOLO ANGOLO BUIO DELLA CASA, SALVATO AI FLASH DELLA TV, AI LAMPIONI CHE ENTRANO DA GRANDI FINESTRE

 

Oggi non scrivo, dico. Sono fiaccata (ancora) da notti instabili.

Accendo comunque il pc, come un atto involontario, come il caffè, il bacio ai figli quando l’orologio è avido e si corre, e ti posi con uno strofinaccio tra le mani, senza la condensa dell’amore.

Trovo la sagoma azzurra di una richiesta di amicizia. Non l’avrei riconosciuta subito, se non avessi visto certe foto ieri, se non mi avessero detto che ha aggiunto un nome al suo di Battesimo.

Mia nipote.
La prima.

Ci conosciamo poco, glielo scrivo in un messaggio che forse leggerà svogliatamente. In una lingua che lascia indietro insieme agli anni, radicata nel suo norvegese, a Oslo, dove mia sorella andò a vivere troppi anni fa.

Sono la zia vecchia. Penso alle mie, di zie, a quei baci accettati sulle guance come la benedizione del parroco. Alle riunioni di famiglia in cui non puoi sottrarti a qualche complimento. Alle domande vaghe cui non sai rispondere, e a quelle precise che non sai evitare. Adesso sono io. Quella zia.

Di là di un pc, di diverse nazioni e un intero mare, c’è Anna. Che ora si chiama anche Erica.

Sono quella che venne un mucchio indecente di anni fa. Che venne un sacco di volte. Prima dei miei figli, tra un amore e l’altro, un lavoro e l’altro, quando il nomadismo del cuore si accordava agli aeroporti. Oslo era la mia scatola degli amori. Il barattolo delle coccole.

Volare ti prende e ti leva la gravità. Non solo quella terrestre. Ti prende le membra e mentre le città diventano dadi di case, tutto diventa un gioco minuscolo. Facile.

Volare verso una sorella lontana era cambiare dimensioni: restituire al grande la sua grandezza. A quella sorella con cui avevo diviso la stanza per decenni, il nostro fianco a fianco. Soffrire un po’ scoprendo quanto posto aveva ancora accanto a me, ma anche amarsi in modo nuovo. In quel luogo fatto di boschi e di fiordi, di mare freddo, di pantaloncini al sole, del sole che alle dieci di sera, nel lungo giugno, mi lasciava ancora a scrivere in giardino. Io, un quaderno, un piccolo zaino. Partivo con poche cose. E grandi spazi interiori.

Partivo anche nella neve, ricordo quella bufera che a Orio mi tenne in ostaggio per otto ore. Comunque poi arrivai. Arrivavo sempre. Partivo con poco preavviso. È il vantaggio di essere soli.

La fregatura era tornare. Spiegare ai sentimenti che possono venire con te.

Quella volta era settembre. Sei nata a maggio. Sei stata una telefonata attesa per giorni. Il primo parto dopo quelli di mia madre, o di qualche cugina. Le interrogazioni insistenti ogni volta che squillava il telefono in anticamera, non c’era il cordless, non avevamo cellulari: “È nata??” Finché tua madre disse “sì.”

Sono venuta mesi dopo, è andata così non so nemmeno perché. Avevo finito un lavoro dei miei, la solita indomita che fa casino, licenziata senza licenziamento, in una collaborazione da borsista dopo troppe critiche. Dove potevo andare se non a Oslo? Barattai lo scazzo con la ripresa, la frustrazione con l’amore.

Mia sorella venne a prendermi al terminal bus. C’eri anche tu. Dormivi in una carrozzina che ricordo blu. Ricordo te: la mia pazza incapacità di guardare altrove.

Sei stata la prima conferma di quanto ami i bambini. La prima bambina un po’ mia. La prima notte non dormivo: avevo iniziato a sperimentarci, a scoprire quelle cose che ti facevano ridere, quando schioccavo la lingua, e quelle che ti ammaliavano, lo smalto rosso sulle mie dita, tamburellarle sui vetri. Ne volevo ancora, e ancora, mi rigiravo aspettando che fosse mattina. Molti anni dopo avrei avuto notti simili, amplificate, al parto dei miei figli.

Certe sere ti avevo presa in braccio per addormentarti io. Ti cantavo Buonanotte Fiorellino, nel solo angolo buio della casa, salvato ai flash della tv, ai lampioni che entrano da grandi finestre. Modulavo la voce e strofa per strofa la abbassavo. E strofa per strofa ti facevi pesante. Quello che non si fa: addormentare un bambino in braccio. Non lo sapevo. Ero una ragazzina, nonostante gli anni.

Tu non ricordi. Sei nell’età in cui queste sono bazzecole. Sono i ricami nella scatola sbucciata del cucito mentre pensi alle feste, ai primi amori, al tuo bellissimo vestito.

Sono la zia che non ti impegna in baci e confidenze, ci vediamo poco.

Ma sono quella di una canzone che poi cantammo insieme negli anni a venire. Tu sorridendo. Io serbando – sempre – un indomabile stupore.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 5

  1. mamma avvocato

    Mamma mia, Maddalena, sarà che sono piena di ormoni della gravidanza, però post come questi, con il tuo stile e i tuoi sentimenti profondi, mi fanno venire le lacrime agli occhi per la commozione!!!!

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  2. Emanuela

    Caaaraaaa! Grazie per questo blog! Madda, mi hai davvero commosso. Come vorrei che le mie figlie parlassero cosi’ bene l’italiano da potere leggere e cogliere l’intensita’ e la finezza dei tuoi articoli! Questo comunque a Anna glielo devo proprio far leggere. Un abbraccio forte!

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      Maddalena Capra Lebout

      Ho davvero un ricordo particolare di Anna, proprio perché era la prima bimba nata tra noi (anche se lontano!). Sapevo che prima o poi l’avresti letto, mi fa piacere! Un bacio a tutti :* :* :* ps: lei magari adesso ha ben altro per la testa che ascoltare le righe sentimentali di una zia 😉 Ma le parole sono lì, se vorrai e quando vorrai. Grazie Emy

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