Maternità

“Oggi vengo io, con Isabelle”

Sarah è seduta con gli altri: una cascata bionda di boccoli che cerca la luce, il volto incrinato. Lo vedo arrivando, da fuori, sulla soglia, la osservo. Lei ancora non mi scorge, sta chiusa a pugno, come una mano, capisco che mi ha attesa e il fremere si è già scomposto, ha fermato i gesti, ammutolito gli occhi, in quel timore velato che la mamma non venga.
Sono in ritardo, per i suoi tempi bambini: non sono tra le prime che arrivano al suono della campanella. Eppure, da stamane, le avevo promesso: “Oggi vengo a prendervi io, con Isabelle.”
Lascio la carrozzina all’ingresso, mi ha fatto così strano avere le mani di nuovo su un manubrio, condurre quel tre-ruote così leggero da sembrare vuoto. Le commesse mi fanno due parole, il parto, la piccola. Mi sbrigo e accorro da quella che ora pare così grande.
“Sarah!” Devo chiamarla due o tre volte, è raggomitolata nella sua nuvola pensosa e prossima al temporale. Lei alza il visino, prima, poi si leva sulle punte delle sue ballerine rosa, lucide. Lucidi gli occhi, due goccioline versano in silenzio: “Amore, la mamma viene sempre a prenderti. Sempre. Ho fatto tardi perché la Isabelle ha fatto la cacca dappertutto, ho dovuto cambiarle il pigiama e il body.”
Spiegazioni adulte, sabbiolina che scivola inutilmente intorno alla sua aurea innocente. La prendo in braccio, pesante come non ricordavo quasi.
Patrick è sulla porta della sua classe blu. Il mondo intero è sulla porta.
La maestra sgrana gli occhi, lucenti dietro gli occhiali: “È tutta la mattina che è emozionatissimo, continuava a dirci che venivi con la sorellina.”
Mathias mi ha dato un colpo di telefono intorno all’una, chiedeva se andavo io, o ancora lui, a prenderli.
“No, scherzi? Gliel’ho promesso…”
I miei bambini mi carosellano intorno, si attaccano alle gambe, è tornato il fremere, l’eccitazione che zampilla: non avrei mai potuto tradire le loro aspettative.
Attraversiamo il salone: la carrozzina sparisce ingoiata dall’assieparsi di maestre, commesse e bambini. Un nido di persone, rami di braccia intrecciati intorno a lei.
È come nascere un’altra volta.
Un eguale stupore attraversa le bocche aperte dei piccoli, quelle degli adulti che chiedono, l’aria elettrica che ha smesso di contare i minuti: suona la campana, dovremmo affrettarci all’uscita, ma l’uscita tace, intimidita.
Solo la piccola di nulla si accorge, la polvere stellata che cade intorno, da questo firmamento, non la scuote, beata nel suo altrove, vicina e lontana, affondata nella tutina bianca.
Ha qualcosa di miracoloso, quel piccolo essere: ancora uguale a quello che avevo dentro, lo stesso che è uscito, il confine allungato tra dentro e fuori, vita che comincia. Ancora feto, cucciolo di mammifero, cordone che pulsa, visibile carne di ciò che era amore interno. Pezzo di madre, mischiato con lei.
Il tempo si raccoglie e s’arresta dinanzi al mistero: per quanto sia naturale una nascita, una questione di riproduzione, di cellule, è ancora in grado di destare lo stupore acceso di un frammento infinito. Creando meraviglia nella meraviglia.

geddes

Foto Anne Geddes

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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