Altre Verità

Ma io sapevo di non poter essere sua

ODORE DI MILANO NOTTURNA, DI ZAMPIRONI, MENTRE L’AFA SI ARRENDE: NON CI FU NULLA CHE NON ANDASSE

 

Disse hai dei bei fianchi. Raccolse la mano, la passò sul profilo sinistro del mio corpo. Ero vestita in modo semplice, quei jeans così larghi al fondo, e lunghi: i sabot spuntavano appena, come segreti. La maglietta lasciava fuori una luna di pancia ancora cittadina, pallida. Era un ragazzo per bene, uno che non osa oltre il dovuto. Uno che adesso il ricordo scava e gli lascia un collo nel nulla, nessun volto, più, nessun ricciolo ai capelli. Ma io sapevo di non poter essere sua.

Accanto a noi, all’aperto in quel ristorante che avevo scelto, sedettero due persone: un uomo, un ragazzo. Il cameriere aveva scostato appena i tavoli, tra la nostra cena e la loro correvano solo due dita. Troppo poche per non sentire. Mentre ipotizzavo dal menu qualche piatto che non ingrassasse, salivo e scendevo sul mio compagno di serata, il posacenere, il mio accendino nell’attesa. Di cosa parlavamo? Di qualche incontro come il nostro, di quei siti web dove si affollano i piccioni single alla ricerca di un tozzo di cena come questa, un amo che diventi amore. La grande occasione per anime che non hanno trovato sbocco negli uffici, nei vapori di qualche palestra, nelle feste danzanti di un amico.

Per tutti coloro che tornano a casa con le mani occupate solo da un portachiavi, e poi girano silenzi nella serratura, si riaccompagnano in un taxi, un bus: per tutti questi c’era internet. Le chat. I messaggi.

Buttavi due righe, bastava essere donna, la foto non l’ho mai messa, sapevo di essere bella. Capitava che raccoglievi il resto degli scarti, ragazzi senza forma, il cui unico profilo era questo della bacheca. Mezzi uomini che andavano dalla mamma a farsi lavare le mutande, altri che il sabato lo passavano alla manicure. Quando cadevi su qualcuno che due chiacchiere ce le facevi facile, quando c’era la scintilla di un solo, piccolo istante comune sulle cose, l’incrocio su un interesse condiviso, sembrava la grande rivoluzione. Sembrava che avevi vinto il giro di giostra. Che adesso ogni fottuto cavallino della rotonda sarebbe diventato un unicorno alato.

La solitudine ti insegna un mucchio di cose. Prima fra tutte: accontentarti.

Per questo mi ritrovavo lì, su quella sedia di metallo claudicante sul marciapiede impreciso. Un ragazzo pulito, un virgulto dolce salvato alla savana selvaggia del web. Mi lasciai versare l’acqua, conversammo in quella giusta proporzione tra silenzi e parole, sguardi pieni di ascolto e altri a penzoloni sulla prossima cosa da dire. Odore di Milano notturna, di zampironi, mentre l’afa si arrende: non ci fu nulla che non andasse. Niente andò fuori tinta. Nulla eccelleva.

Ma di lì a due giorni sarei partita per Parigi. Nel tempo che avevamo organizzato questo nostro incontro, gli scambi epistolari con Mathias si erano fatti vividi, fino a un biglietto di volo. Questa serata restava come un sassolino dimenticato da un tragitto precedente. Il lascito di un tentativo. Per questo ero uscita ugualmente, per questo mi ero convinta a non scartare la mia vita in anticipo. Di tanto in tanto interrogavo gli altri ospiti, chi era la donna seduta dietro di lui. Che rapporto avessero i due accanto a noi. Un padre e un figlio adulto? Forse. Turisti? Senz’altro. Il borsello inevitabile di chi gira la città, una cartina di quelle prese alle edicole del metrò. Solo che questa serata era proprio in bilico, per me. Come questa sedia, come l’inglese pessimo di quei due col cameriere. Perché bastò un solo attimo, che smesso l’inglese e i silenzi, i due attaccassero a parlarsi tra loro: erano francesi. La Francia era già a due dita da me. E non importa quanto fosse dolce il mio compagno, quanto delicata la sera, e sinuosi i miei fianchi. Io sapevo, che non potevo essere sua.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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