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Maternità

La mia fragilità

È TUTTA IN QUELLA VOCE CHE ROMPE

 

Lo capisco davanti a quella ragazza. Gli occhiali in celluloide nera, i capelli riassunti in una coda alta. È lì il silenzio di questi giorni: in uno schianto che esonda.

Nel cortile vuoto, inaridito dall’afa e dalle madri che già hanno raccolto i loro bambini e adesso scemano. Nella mia, di bambina, chiazzata di rosso e bianco, come dopo una corsa: solo che non ha corso. Mi dice ho sbagliato, mi sono dimenticata di rimettere le ballerine. Adesso indossa le scarpe da tennis che dovrebbero servire unicamente alla palestra. Al solo sfogo di questo campo estivo.

Siamo di nuovo lì. Il campus l’ha scelto lei, l’oratorio l’annoia, ha preferito questo. Lo stesso edificio dove ha speso nove mesi, la stessa mensa nei seminterrati, la stessa lingua di cemento dove facevano i giochi della festa di fine anno.

Ora lì non ci corre nessuno, nessun gruzzolo di grembiuli, nessun bastoncino grattato a terra a imprimere solchi, graffiti di ghiaia.

– Non li portate fuori?

L’ho chiesto subito, già il secondo giorno. Lei fumava in pausa, la sua collega mi ribatte sì certo, stiamo solo vedendo un po’ come gira, un paio di giorni per rodare.

Mi hanno vista volitiva, forse prepotente: – Non si scaldi.
– È che l’alcol brucia subito, sulle ferite aperte.

Mi hanno detto che il cortile è piccolo, ma li avrebbero portati al parco giochi al di là della strada. Io passo ogni giorno davanti a scivoli che scintillano al sole, ad altalene immobili, a panchine vuote.

Così adesso ritorno: sulle stesse domande.

– Non me la sento – dice la coda alta. E argomenta che lei tiene i grandi, a pallone in quel quadrilatero, l’unico consentito dal sopralluogo del Comune, non si fida, poi si sbucciano. Cambia il personale ma ancora bruciano le stesse sbucciature, i genitori apprensivi sono tutti qui, l’oratorio si prende la merce buona, le madri che lasciano bambini sul campo di basket asfaltato e a schizzarsi alla fontana.

– Ma domani andiamo al Parco delle Cave.
– E alle cave invece, si fida?

Allora mi estrae il suo asso nella manica, ha un fratello che fa il capocantiere o non so cos’altro: – Mi faccio dare il nastro bianco e rosso, cingo tutto. E certo!

Di cosa sei fiera?

Lo capisco davanti a lei, a quel nastro che mi figuro, che

forse non è vero, quello che ho detto a Sarah: – Ovunque sei nella vita, troverai sempre qualcuno disposto ad aiutarti.

Chi mi aiuta, adesso?

– Le cave non sono la stessa cosa. Mia figlia ha paura anche solo se lasciate questo lotto. Se attraversate la strada. Domani mi si pianta al cesso e alle cave chi ce la porta?

Mi arriva addosso tutta una spinta: che ormai fanno due mesi, da che barcolliamo di nuovo. Che ogni sera e ogni mattina non lo sai come arriviamo qui. Che sono di nuovo malaticcia, sto sana un mese e mezzo e poi il corpo s’inceppa di nuovo. Che l’estate doveva staccarsi dalle solite lande, apri la mano, il filo scorre, il palloncino va. Cielo e sole. Qualche acquazzata. Null’altro.

La mia fragilità è tutta in quella voce che rompe.

Il Comune non ha dato l’agibilità per la maggior parte del cortile. Le educatrici aggiungono altri veti. Il Comune doveva ritenere non idoneo non il giardino ma la struttura:

una struttura dove non si può stare fuori non è idonea per un campo estivo.

Le dico questo.

Lei e l’altra muovono la testa, su e giù, il loro sì liberatorio.

Dovevano scriverlo sul sito, io ho pagato 460 euro, non certo per chiudere mia figlia altri due mesi. Dovevano scriverlo: – La struttura non permette il gioco all’aperto, le poche aree disponibili saranno utilizzate a discrezione del personale: continuare comunque con la registrazione?
E poi un pop-up: – State per iscrivere vostro figlio in una struttura senza spazi aperti. Continuare?
E poi ancora: – Siete sicuri? Per continuare premere accetto. Per cancellare premere annulla.

Annulla. Annulla. Annulla.

A nulla sta servendo ogni cosa che faccio.

Sarah sorride, va e viene, raggiunge Isabelle un po’ più in là, poi torna. Sniffa stralci di discorsi. Di questa mia cerbottana che sputa dove può.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 5

  1. Carmen

    Meno male che i bambini si accontentano, o meglio sono contenti con poco… O sbaglio? Che mondo, però, quello in cui non si può vivere più all’aria aperta per paura.

    1. Post
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      Maddalena Capra Lebout

      I bambini si accontentano, ma poi ributtano fuori le costrizioni subite, in altro modo. Agitazione, ipereccitazione, nervosismo. Siamo bestie, abbiamo bisogno di aria quanto ne abbiamo di socialità, o cibo, o sonno.

      1. Carmen

        Hai ragione. E’ vero. E poi la società li accusa di essere maleducati, intrattabili e selvaggi…quando semplicemente gridano (a volte metaforicamente a volte no) la ferita di non avere i propri bisogni soddisfatti.

  2. Pingback: Una figlia | Pensieri rotondi

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