Ho paura che smettano di avere bisogno di me.
Glielo dico così, a metà tra un piatto e il mio corpo alto, la tovaglia scura coi suoi orologi sempre fissi sul tempo, e il mio tempo con gli occhi mai fermi.
Perché bisogna dirlo.
Che nessuno ha mai amato quanto un figlio. Che forse non è per forza tutto quanto amore, puoi dirlo istinto, è una forza di sopravvivenza, prima, e poi imitativa, i neuroni specchio, le girandole intorno alle tue gambe, ad ogni fiato. Tutti quei modi astrusi, estremi e semplici, di averti.
Non sei mai appartenuta a nessuno in questo modo.
A tua madre, forse. Be’, non lo ricordi. L’amore più grande di tutti, generato come un geyser ma anche come un gemito flebile, come un grido e come un segreto, noi non lo ricordiamo.
E quando qualcuno come un figlio ci nasce dentro, riesuma un’antica memoria, un bisogno di sempre. Di appartenere. Di sentirci indispensabili.
Prende il piatto, lo posa nel lavello. Va bene, non è ancora adesso. Lui le veste meglio, queste consapevolezze, le spalle lo sanno, come distribuire il peso. Gli invidio quella sua capacità di adattarsi come le ombre al suolo, non ha un esilio da scontare, non ha – seppur avrebbe – un amore da riscuotere. Il padre mai avuto.
È solo che oggi ho rivisto quella fermata, dove Patrick si stringeva nella mia mano al ritorno dalle sue terapie. E dove andavamo, col passeggino, le sere che eravamo in due, suo padre all’estero per lavoro, e il sole cadeva senza alcun rumore.
È solo che ho rivisto quella traversa dove m’infilavo con lui, prima di guadagnare il parco, così avevo una scusa buona per un passo lesto, e lui aspettava, sotto ai capelli chiarissimi, e poi si liberava quando lo mettevo giù, tra le prime fronde, ed era uno scroscio di luce, un applauso al vivere. Dentro mi veniva un orgoglio che respirava ad ampie boccate, si respirava tutto quanto il parco.
Ho ripensato a tutti i nostri taxi. Ogni volta che ne passa uno, che ne vedo uno parcheggiato, leggo la sigla, neanche potessi ricordarli tutti, a memoria. Ci metto dentro noi, le mie chiavi in mano dopo aver chiuso il portone. E quella volta che abbiamo corso come matti. Vieni, Patrick, corri: Mathias ci stava accompagnando, Sarah è stata male sul seggiolino di dietro, e allora giù, lui torna a casa, noi recuperiamo un autobus, sta già arrivando, è il primo giorno di psicomotricità, corri, corri. Lo prendo in braccio, tre anni di bambino improvvisamente pesanti a fiaccare le gambe, la fretta. La prima di mille volte.
È solo che la musica si sfittisce. Ora fa grandi pause. E tutto quel tempo, e tutto quel silenzio che volevi quando ti serravano senza scampo, è un imbuto o perfino un pozzo, ci cola la memoria, e pensi che tutto sommato non era così male essere sempre in cima alle priorità. Che
ti hanno sfrattato dal tuo monolocale, ma in fondo ti hanno dato una reggia. Ti sei chinata un miliardo di volte a rimboccare coperte e asciugare lacrime. Ma ti bastava rimboccare coperte e asciugare lacrime
per essere insostituibile, per avere tutta la pazzia di cui mai avresti coraggio da sola. Ti hanno slargato e sei diventata enorme. Gigantesca.
Non è poi così male essere tutto.
Non è male affatto quando qualcuno ha un bisogno incessante di te. E tu sai rispondere. E per un po’ non hai più alcuna domanda da fare all’amore.
Commenti 3
Tu dici? forse perchè io sono ancora dentro il tunnel, anche se comprendo le tue parole e so che le ricorderò un giorno non molto lontano, per ora vorrei potermi sentire meno indispensabile!
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Oh, ma è sempre così! Ancora adesso, quando mi “soffocano”, vorrei più spazio. Ma molto spesso mi accorgo che la risposta alle loro necessità, più crescono, più è difficile, non basta più un abbraccio, un gioco, “esserci”.
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