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I beffardi

Il ristorante della domenica

THE ANSWER MY FRIEND… IS BLOWING IN THE WIND

 

Mi ha sempre incuriosito la bizzarra sopravvivenza di quei ristoranti lungo la provinciale o in talune defilate vie della città o di frazioni limitrofe. Insegne rimaste a ventenni fa, granchi che nuotano al neon, verande dove s’indovinano famigliole coi mocassini della domenica. Li osservo passando e regolarmente mi chiedo come campino.

Di decine che ne ho contati anche stamane metà sembrano improvvisamente svaniti quando, tornando dal primo giretto della stagione, sorprendiamo i figli con l’imprevisto “mangiamo al ristorante”. Questo è troppo rancido, quello non ho capito, questo troppo spoglio, l’altro dov’è andato. E poi è lui: un cosuccio a un piano, il piccolo giardino davanti, il tetto a spiovente.

– Oddio, ma qui c’è il karaoke.

Stupisce che il marito normalmente ipo-udente abbia afferrato che codesta melodia sia frutto incauto di qualche ugola improvvisata. Non possiamo evitare un breve consulto oculare, cui segue, temeraria, la marcia d’ingresso.

– Adesso ci chiedono se abbiamo prenotato.

Che non lo so se è atto previsto dal copione, pura galanteria o tentativo mal riuscito di darsi un tono: tu entri e, infatti, te lo chiedono. Lei è una ragazza con un efficace pushup, gli occhi vitrei e i capelli platino serviti su un viso alquanto algido. Risponde al Buongiorno e, vedendoci in 5, s’irrigidisce in un sospiro per poi produrre la fatidica domanda. Anche se il locale si presenta così:

– Potete sedervi lì – allunga un braccio senza l’accortezza di accompagnarci.

Provando la mia gentilezza più squisita sorrido con fare materno-festivo: – Sì, dove c’è posto – che, detto così, sembra un po’ prenderla per il c.

Il tempo di posare giacche e fondoschiena sulle sedie, che menu vagamente unti sulla copertina e decisamente sdoppiati nelle stampe sono già disponibili davanti a noi. Come sempre la scelta dei piatti è alquanto laboriosa: non si tratta di scegliere cosa mangino i figli, ma cosa avanzeranno, che dovremo poi mangiare noi. L’uomo total black (pantaloni, maglia e grembiule) ha la sua piccola simpatia che Isabelle non coglie, propone arancini che rifiutiamo, annota la milanese divisa in due, i miei gamberoni, la pasta ai formaggi che suggerisce “se no gnocchi, dai gnocchi, eh?”, l’acqua che è solo da un litro, però “se no vi faccio due di plastica da mezzo, dai due mezze, eh?”, e finalmente sfuma restituendo a Isabelle la sua spavalderia.

Dalla sala attigua la tv si mescola alla pianola, poi arriva il cantante, l’origine di quel karaoke che mio marito aveva azzeccato.

– Hey, dammi un cinque!

Ha puntato Sarah, alza la mano, ha grandi occhiali, il naso molle e rotondo, e una simpatia troppo larga, esuberante sui suoi anni già segnati. Lei si avvita al mio schienale, lui punta la Isa cascando ancor peggio. Poi scema a sua volta con la promessa che detterà, di lì in poi, la velocità del pasto: – Dopo vengo a chiamarvi, che venite a cantare.

Da quel momento parte una sorta di cronometro interno su cui siamo tutti tacitamente concordi.

Pushup e la sua collega bruna spazzano la sala in nostra direzione e, non so perché, ma in quello sguardo bieco trovo più paura che nella prospettiva di un microfono. Forse non le è piaciuto che non ho prenotato. O non ho preso il menu completo.

Intanto arrivano gli arancini che non ho chiesto.

Finiti quelli, mossa da incontenibile voglia di planare su un cliente, e sempre sotto lo sguardo torvo della mora, Pushup mi serve un piatto di piovra caldo.

Non l’ho chiesto.
– Ma ha detto che andava al buffet.
– Non l’ho mai detto.

Dopo due minuti nei quali quegli occhi scadono ancor più vistosamente, è il turno delle ostriche.

Non le ho chieste.
– Vengono dal buffet.
– Le ho detto che al buffet non predo niente.
– Le portiamo a chi chiede il pesce.

E che cazzo, adesso mi devo bere tutto il mare perché ho ordinato due gamberoni?

Black man e il suo socio si avvicendano sedando potenziali risse tra femmine. Mentre comincio a sospettare che il pericolo numero uno non sia più il karaoke, non sia nemmeno quell’occhio laser tipo il coyote ti guarda, ma una furba insistenza che obbligherebbe i più fragili a pudica accondiscendenza.

Chiudiamo in volata, “no il dolce no.”
– Perché?
– Perché se prendi il dolce devi cantare.

E in men che non si dica, in un modo o nell’altro, siam fuori. Sull’erba che poi è sintetica, accanto a un posacenere e un albero secolare (che forse è la sola cosa autentica). A chiedermi, di nuovo, com’è che sopravvivono questi ristornati, e a sbirciare quello che canta da solo: “The answer my friend… is blowing in the wind.”

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 8

  1. Simoelaminime

    Ci siamo capitati anche noi in quei ristoranti lí, la tua descrizione é talmente reale che mi pare di sentire il vuoto della sala e l’insistenza delle cameriere. E ancora mi domando ma come fanno a essere lí ogni giorno…forse per quelli di passaggio che non hanno prenotato.

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  2. mamma avvocato

    Che orrore!!! Per fortuna in ristoranti come quello mi è capitato raramente di capitare, di solito in vacanza, quando la prendo bene comunque. Odio la domenica al ristorante ma la tua descrizione è calzante! Toglimi una cuorisità, però? IL buffet e gli arancini alla fine ve li hanno pure fatti pagare?!?

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      1. mamma avvocato

        Io detesto quando ti forzano a mangiare qualcosa o quando chiedi un piatto e loro cercano di farti cambiare idea e prenderne un altro: vado al ristorante apposta per scegliere e essere servita, mica per adattarmi o fare piacere a loro!

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          Maddalena Capra Lebout

          Sono d’accordo! A volte lo fanno per essere ospitali, peccato che il mio senso di ospitalità (e anche il tuo, direi) non è propriamente questo. E poi qui si sconfinava nell’insistenza illecita!

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