4
I beffardi

Il dentista

IO CREDO CHE LA BOCCA, COME TUTTI GLI ORIFIZI, SIA QUALCOSA DI MOLTO PRIVATO. CI VUOLE UNA CERTA SPAVALDERIA PER APRIRLA COSÌ COME NIENTE DAVANTI A UNO SCONOSCIUTO.

 

Il dentista è un grande revival dell’infanzia. Per qualche oscuro motivo tra allora e adesso c’è una sorta di buco nero che s’ingoia la memoria. Forse, più probabilmente, non ho più avuto sessioni di fitness dentale così continuative da allora.

Lui si chiamava Dottor Ventura, e ci andavamo tutti: io, i miei fratelli, e anche i miei cugini (che non sono pochi). A Valeria piaceva girarsi le mani nelle mani, ingobbiva un po’ la schiena, e poi esalava quelle sue parole roche abbastanza da sembrare perfide. Mi bastava vedere lei, mia cugina, per sentirmi addosso quel Gargamella di bianco vestito.

Lo studio era lontano, in centro, ci andavo con mia madre, sui mezzi pubblici. Ricordo una scala, forse a chiocciola, il corrimano arancione. Qualcosa di blu che è verosimilmente il mio Alzheimer a riprodurre, le file di sedie imbottite nella sala d’attesa, e qualche pianta da interno di quelle con le foglie sottili e uncinate come quella schiena, e che immancabilmente ritrovi solo negli studi medici.

L’odore di fragola sfuggiva al controllo di porte chiuse capaci di spaventare quasi quanto gli arnesi che sapevi abitare quei locali. Allungavi l’orecchio agli urletti delle vittime infantili di quella guerra dentale, e aspiravi boccate di impasto per le impronte. Quando toccava a te entravi dimessa, offrivi le fauci, e cercavi di trattenere i conati mentre ti imbottiva con quella sostanza, che qualche idiota di prole sprovvisto (e sprovveduto) deve aver ideato nell’illusione di fare cosa grata ai bambini: non è che essendo alla fragola, quella pasta sarà gradevole. Piuttosto le fragole, da quella pasta in poi, risulteranno sgradevoli.

E mentre quella ricorda la tua dentatura per sempre, tu per sempre ricorderai lei.

Il giorno in cui andavo a ritirare l’apparecchio, in compenso, era un po’ come prendere un premio: faceva vagamente fico averne uno anche io, faceva sentire un po’ più grande, e poi era qualcosa di squisitamente personale, da accudire come un cucciolo. Per noi, cresciuti senza il vezzo di un pet e abituati alla sobrietà e all’essenziale, aveva quasi del lusso.

La prima sera il suo impaccio addosso al palato era in fin dei conti una ragione onesta di divertimento. (I bambini sanno apprezzare certe novità per insondabili ragioni). Il mattino era affascinante riporlo nel suo bicchiere col liquido per la pulizia e poi nella sua scatola a forma di dentiera. Coi giorni l’entusiasmo scemava, ma tutto sommato sono stata fortunata che sotto non me l’hanno mai messo, e non ho mai dovuto soccombere al filo spinato di quegli apparecchi fissi che metallizzavano molti dei miei compagni. Di fatto, però, nemmeno si può dire che la mia dentatura si sia allineata.

Poi dimentichi. Quando non hai più una mamma che viene con te, l’autonomia te la prendi tutta quanta. E smetti di andarci.

Per un certo periodo, in adolescenza, oltre ai miei amori privati custodivo nella bocca denti da latte irriducibili che non volevano smammare nonostante il definitivo fosse già completamente fuori. Serbati come segreti anche quando appariva ormai chiaro che non se ne sarebbero mai andati se non con l’invito onorevole di una pinza, questi stoici difensori dell’infanzia mi costringevano a sorridere con cautela, prigioniera di due forze uguali e contrarie: confessare e risolvere, oppure nascondere e scappare.

La svolta avviene un pomeriggio, al tavolo della cucina. Mia sorella è appena rientrata da un appuntamento che le ha insegnato il ridente significato di devitalizzazione presso un dottore che, a quel punto, non era più Ventura, e per amor di sfida o di empatica condivisione di sfighe declama: “Ah non hai idea che male. Ma comunque la mamma ha detto che devi andare anche tu, ti ha già preso l’appuntamento.”

Riecheggiante, dal corridoio di marmo, mia madre lamentava ma non potete ridurvi così, dovete farvi vedere!

Il giorno del mio appuntamento aveva cucinato gli gnocchi. Vedi quanti dettagli segnati a fuoco dalla strizza: ne mangiai due. Lo stomaco era ridotto al nocciolino di una ciliegia.

Accanto alla paura dell’evento c’era quella dell’accompagnamento. Sola voleva dire sola. Con mia madre voleva dire sputtanarmi.
Alla fine andai sola.

Io credo che la bocca, come tutti gli orifizi, sia qualcosa di molto privato. Ci vuole una certa spavalderia per aprirla così come niente davanti a uno sconosciuto.

Per la stessa ragione ogni pecca che racchiude tendi a continuare a nasconderla come una colpa.

Quando dopo decenni un dolore sospetto ti conduce a riaprire le danze, speri che molto o tutto sia cambiato. In effetti non vai più da Ventura, il dentista non si rigira le mani, e la puzza di fragola se n’è andata. Come anche la mano della mamma.

In compenso ritrovi: lo stesso controsoffitto che hanno tutti gli uffici o studi medici, la stessa pianta nella sala d’attesa, la stessa poltrona che la fanno a chaise longue e tu pensi che figata, è per mettermi a mio agio, come ai tempi arditi dei sedili reclinati in auto, o lo spasso di una sdraio su un’isola tropicale. Invece è solo perché ci dovrai restare una lunghissima ora, e per innumerevoli volte.

E, come per la pasta alle fragole, non amerai la poltrona: detesterai le chaise longue.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

Commenti Facebook

Commenti 4

  1. Veronica “veramenteveronica” Alberti

    la paura del dentista non passa mai…è una costante della vita ….. e ti capisco …..
    io dopo le impronte non mangiavo fragole per un bel po’ di tempo …… e neanche il dentifricio alla fragola volevo. adesso quando i ragazzi usano il dentifricio alla fragola la mia bocca inorridisce ancora

    1. Post
      Author
  2. Pingback: La gente è un ottimo passatempo | Pensieri rotondi

  3. Pingback: Ma tu, che lavoro fai? | Pensieri rotondi

Lascia un commento