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Altre Verità

I figli sono la nostra coperta di Linus?

“LE PROSPETTIVE SONO SOLO SCHIZZATE, HO PREFERITO FARLE COSÌ, A MANO LIBERA”

 

Mi sono sempre chiesta se sono troppo intransigente o troppo indulgente con me stessa.

Me lo chiedevo guardando i mezzeri che mia nonna aveva appeso per tende sulla finestra di quella stanza al mare. Mi ero portata il pc, il floppy disk con la tesi di laurea, i libri. Una sacca, e una buona dose di solitudine.

Il treno fischiava vicino e lontano, dividevo quei giorni tra la solitudine buona, confondermi a un sole che cominciava a scottare, scendere in mare no, mi bastavano i sassi del terrazzo, avanti e indietro dal grande salone, seguire quelle interminabili fughe di piastrelle che refrigeravano i piedi fino alla cucina e guadagnarmi un bicchiere di acqua gelata. E una solitudine cattiva: lasciare che il giorno, l’estate che arrivava, i primi gruppi di ragazzetti sulla passeggiata che poi cospargevano la spiaggia di teli di spugna, si prendessero tutti i racconti di sale.

Facevo un buon lavoro, la mia fissa per il controllo si produceva in tabelle ora per ora: con simili dettami avevo conseguito la maturità arrivando pronta anzitempo.

Eppure poi, se mi guardo indietro, in certe grandi cose ho preteso poco.

Quando andavo all’università molti esami si facevano in gruppo: io ero quella che preparava gli schemi della parte teorica, facevano andare avanti me, su quelli. Per i progetti, nonostante una certa grinta creativa e di buonsenso, stavo indietro. Avevo un mostro di tecnigrafo, in camera, lo presi come avevo preso la patente: perché “si deve”. L’ho usato poche volte. Ero incerta con quei rapidograph, gli 0.1, gli 0.5. A ripensarci Architettura non è così vicina all’Educazione Artistica in cui ero forte alle medie: somigliava anche molto, molto posava, su Educazione Tecnica. Squadre, geometrie.

Per il corso di Arredamento e Progettazione d’Interni mi venne affibbiato un docente che esigeva progetti individuali.

Eccola, la svolta. Poteva essere l’occasione per imparare di più, per mettermi in prima linea. Oppure svignarmela nelle mie enormi incertezze. Svignarmela non era possibile, e così presi a lavorare al progetto. Scoprii che ero anche moderatamente brava, avevo buone idee che il docente apprezzò, feci un buon lavoro. Quello che il professore non sapeva, è che avevo ricalcato la prospettiva. La prospettiva figurava tra le tavole richieste, e io non l’avevo mai imparata. Nessuno, me l’aveva mai insegnata.

Così mi arrabattai, feci il plastico in scala 1:20 di quel gigantesco appartamento che era comunque necessario presentare, e una volta costruito quello accesi tutte le luci possibili e ci scattai un po’ di foto. Poi con la carta da lucido le ricalcai malamente. All’esame dissi: “Le prospettive sono solo schizzate, ho preferito farle così, a mano libera”.

E lui se la bevve.

Ecco, se io ripenso a molte occasioni della mia vita, io sono uscita viva, forse perfino vincente, con la tecnica della prospettiva. Non per furbizia, né per pigrizia: solo perché interpretavo le aspettative dell’altro come limiti invalicabili, che non lasciavano spazio a un timido m’insegna?

Se c’è una cosa in cui sono arrivata in fondo, senza risparmiare nulla: sono i figli.

Perché vi racconto questo?
Perché poi

quando diventi mamma, e decidi di non lavorare, fai una scelta di valore. Ma ti chiedi ogni giorno se, dentro a quel sacro valore, ci sia un patto nascosto con la paura di altri esami nei quali la tecnica collaudata non varrà a salvarti il culo.

Perché poi certe priorità (per me, la scrittura) affiorano, e le abbracci. Ma non sai mai quanto spingere.

Perché mi trovo continuamente a chiedermi quali proporzioni dare alla vita. Ma non è facile come quella volta al mare, mezza giornata sul terrazzo e mezza a imprimere files a un dischetto.

Perché arrivi a quarantaquattro anni e ti sei perdonata: per una laurea mai usata, per un esame fatto come potevi, perché quelle fragilità che m’infilavano tutta intera dentro un’ombra minuscola sono le stesse fragilità che scrivono quello che scrivo, che mi portano vicino a chi legge, a chi incontro.

E forse una cosa comincio a capirla: non sono una che si arrende, ma per viaggiare ho bisogno di tragitti scanditi da fermate chiare. Spezzettare il percorso in parti più brevi. E quando refluisco sui figli non è per rifugiarmi dalle sfide: è per aspettare la giusta messa a fuoco, di vedere se posso masticare bocconi più piccoli.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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