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Maternità

Un giorno


Domani.
Rideranno di me alcune. Le madri che hanno obbedito al lavoro, necessità o scelta. Che da subito sapevano di non poter restare troppo a lungo con i loro piccoli a tempo pieno. Le donne tutte d’un pezzo. Mia madre. Rideranno coloro che non hanno coraggio, che chiamano drammi i sentimenti. Quelli che non hanno tempo per la malinconia, che da rive opposte di paure simili, mi guardano: il timore di fermarsi e sentire, loro. La paura di correre e non sentire, io.

Perché anche io sapevo, fin da principio so, che il nostro tempo assoluto sarebbe finito. E adesso mentre stampo la foto per l’armadietto del tuo primo giorno d’asilo, Saretta, il tempo è sabbia.

Sono quel foro minuscolo, io, tra le due pance della clessidra: cade la polvere nella gioia di vederti crescere, di portarti avanti, verso la tua prima avventura sociale, dall’altro ventre, il grembo che si vuota, mentre ti lascia andare. Mi capovolgo senza posa: siamo felici, con entusiasmo preparo la sacchetta, il materiale descritto nell’elenco. Poi un mattino sono sveglia, nel sonno buio di tutti: la casa è un dirigibile verso mete ignote, voi nei sogni, nell’oblio. Io sono immobile e piango.

Ti ho avuta con me, da quel sedici ottobre, ogni giorno, per quasi tre anni. Nei giorni d’estate, nei giorni d’inverno. In casa, insieme. Oppure con gli spazi separati, nel nostro tentativo di insegnare a voi figli il rispetto per i tempi e le attività di tutti.
Dalle poppate ogni poche ore, ai tuoi passi a soli nove mesi, che io ero ferma, bloccata per un’infezione, e tu hai pensato bene di farcela da sola. Dal parco giochi al mattino che rivendicavi regolarmente quando lasciavamo tuo fratello all’asilo, alle passeggiate cui temevo a volte di costringerti per mio diletto e che tu invece, ancora, ricerchi.

I tempi scanditi dai tuoi bisogni. Quelli modulati sui miei. Abbiamo costruito un microcosmo di ore, di azioni, di riti, di luoghi. Abbiamo imparato a ridere insieme. Abbiamo pranzato, sole noi due, per due anni interi. Ogni giorno. Il mio piatto in ceramica coi girasoli, davanti al tuo di plastica (preferibilmente rosa).

Sei venuta con me al mercato al mattino, a fare la spesa, a sbrigare commissioni. Alla posta a mandare i miei manoscritti, a scegliere una rivista di adesivi della Peppa in premio per la tua pazienza nell’attesa in coda. Hai imparato a lasciarmi scrivere al pc quando te lo domando. Quando insisti e ti palesi ogni due minuti hai imparato come mi snervo in fretta. Ma hai anche visto come mi rigenero, la forza che torna subito, leggera, il mio entusiasmo.

Io ho conosciuto i tuoi capricci violenti, ma anche le tue facce buffe, la facilità di vederti felice. Le scenette che mi fai a tavola, le boccacce. I balli in salotto, l’energia senza fine. E poi quando ti accasci, stanca, ti accoccoli sulle mie gambe. Le volte che ti ho trovata addormentata sul divano, oppure sul tappeto. Quando mi chiedi di vestirti da coccinella o da fatina. Quando andiamo a prenderci le focaccine. Quando provo, invano, a metterti una molletta.

Tu non parti, sorrido anch’io, lì in quel collo stupido della clessidra. Farai ancora le stesse cose. Ancora sarai con me per tante ore. Però comincia, domani, il tuo viaggio nel mondo.

La casa si ferma, senza i tuoi piedi scalzi che m’interrogano: “Che cosa stai facendo, mamma?”
Finisce il tempo assoluto per come lo vivevamo. Con una sacchetta rosa, in mano. E l’altra che stringe la mia.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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