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Altre Verità

Fare niente, a volte, è fare molto

Poche cose mi sono rimaste di quando frequentavo Architettura.
Mi restano quegli sgabelli traballanti, la calca intorno a tavoli grossi interamente rivestiti di fogli A0 e di mani. I cappotti impilati sul trespolo più audace. Le attese in corridoio per le revisioni, i compagni di gruppo, le scale ricoperte di gomma. La biblioteca con gli ingegneri che venivano a rimorchiare, il tizio che ci riprendeva perché parlavamo ad alta voce.

Del mestiere, delle materie che studiavo, non rimane molto: aneddoti, questo sì, e qualche nozione che si è depositata sul fondo della memoria, inutile orpello a giorni spesi lontano dalla professione.

Però ricordo le parole di un professore una volta, su uno di quei tavoli, davanti al nostro foglio bianco, alle nostre bocche schiuse in attesa di un amo: “Fare architettura non significa solo costruire. Non è solo questione di erigere. Provate a pensare diversamente: provate anche a scavare. Creare un vuoto, anziché un pieno.”

Togliere, invece di aggiungere.

Ritrovo il concetto molti anni più tardi. Una mattina, alla radio: c’è un pezzo di musica classica, lo speaker cita qualcuno, qualcuno di saggio che suggerisce

“per fare musica servono anche i silenzi.”

Mi capita, a volte, di essere a letto con Isabelle: si è addormentata al seno, io inseguo il sonno. Quello si avvicina, lo aggancio, riposo. Poi scema per un sussulto. Oppure sfugge prima che io l’abbia acchiappato. Penso che dovrei metterla giù, nel suo lettino. Mi arriva addosso una cascata di pensieri: le cose da fare, sfruttare il tempo, chiamare tizio, sbrigare faccende. E se si sveglia? Per qualche istante sono ferma nella frenesia mentale.

Poi cedo. Depongo le armi.

Osservo la tenda, il modo in cui i suoi fiori avorio restituiscono la luce fatta fioca e calda dal suo bordeaux. Ascolto il respiro della piccola. Guardo i pensieri sfilarmi dinanzi come convogli, piccole file di vagoni che diventano giochi. Li lascio fare. E sto.

Potrà durare pochissimo, o forse un’ora. Richiede fatica accogliere un vuoto.
Ma è davvero tempo perso, questo tempo senza orario né orologi? È tempo perso, o è tempo preso?

Perfino quando respiriamo vuotiamo i polmoni espirando, prima che altro ossigeno possa tornare a riempirli. C’è un valore, un sapore, che ha qualcosa di squisito, nel restare inerti:

fare niente, a volte, è fare molto.

Vuotare, invece di riempire. Lasciar venire, invece di cercare. Imparare a stare: nonostante tutto. Stare, anziché fare. Sotto la pioggia insistente dei minuti.
E riconoscere anche in questo qualcosa che ci somiglia.

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Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 2

  1. pensieri rotondi

    Ciao Marina, ho visto, grazie di cuore, mi fa moltissimo piacere, anche perché l’ho scoperto prima di trovare il tuo messaggio, è stata una bellissima sorpresa! Baci, torno presto

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