Maternità

Come posso

CI AMEREMO

 

«Non me ne frega niente, se mi sgridi».

Valuto. Veglio. Soppeso.

Il dramma è scoppiato per un pugno di cracker. Voleva aprirne un pacchetto nuovo, ce n’era uno già aperto da ieri: «Sono da finire» gli dico. Che se no si fanno molli.
Ma a un ragazzetto di undici anni non garbano le regole. Men che meno quelle alimentari, o quelle che insistono su piccole ossessioni come le sue: li hanno toccati altri, non sono miei, li voglio nuovi. E altre cazzate qualunque.

C’è stato un tempo che ai figli gli facevi il solletico. Ti bastava un diversivo, tipo che un cracker diventava una navicella spaziale. Oppure distrarli: se passa un merlo, se c’è un ragno che balla la sua lap-dance su un filo alla finestra. Bastava poco. Poi si riprendeva da dove dicevi tu. Tu, la madre. Tu, la regola.

Il guaio è che indietreggiare fa perdere autorità. «Autorevolezza», come la chiamano gli esperti. Che è un modo più cool per dire la stessa cosa: io, la madre. Io, la regola.

«Si finisce prima ciò che è aperto. Il cibo non si spreca».

Sono urla, sono insulti. Il suo ritornello è che non posso avere ragione sempre io. È in quella fase del disvalore quando crede che l’amore di un genitore sia proteggerlo a tutti i costi dai dissapori. Dargli ragione. Rinunciare alla tua. Come se ogni volta che acconsenti potessi gonfiare la ruota della sua autostima. Ma il buco, quello non lo ammette. Facciamo fatica noi grandi, figuriamoci quando non sei più niente:

un bambino che smette, prima che un adulto cominci. In quel corpo confuso, le gambe esili senza una minaccia di peli. La voce ancora alta, bianchissima, i denti troppo larghi in una bocca da latte.

«Fai schifo». Quando ricevo questa frase non ho problemi a lasciarla passare. Non entra. È pioggia su una cerata. Il problema è il rispetto in questa casa, quell’atmosfera cinerea che lui impone con le sue contrarietà. Noi soffiamo sul positivo, alziamo risa e issiamo vele. Lui è sempre il vento contrario.

Voglio proteggere le ragazze. Le fiabe. La Vita.

Non rispondo con la stessa rabbia. Sarebbe da guardarlo e dirgli ti amo. Così, un controsterzo alla sua fuga, a quell’odio che malamente maschera disagi e dolori. Solo che i suoi occhi se ne vanno come quelle palline matte, quelle che pescavi alle macchinette e poi impazzivano per casa, osavano altezze e attentavano alle cornici d’argento.

Non lo so. Che cosa fare. Ribadisco che non sono ammesse queste frasi, che questi insulti non sono credibili né concessi. I miei paletti si perdono, sono stuzzicadenti in un feudo gigante. Ma è il mio gesto doveroso, la mia presenza. Non posso far finta di niente.

E poi si aspetta.

Faremo la pace. Ci ameremo. Mai abbastanza. Gli darò un bacio, gli dirò ti voglio sempre bene. Gli ricorderò la meraviglia che di sé non vuol vedere. Non cambierà niente. Assalirà la vita al prossimo inciampo. La prossima volta che un cartone animato in tv per Isabelle avrà pupazzi imprecisi, e allora lui cadenzerà la sera: «Fa schifo, questo cartone. È orribile». Dopo tre uscite così, gli dirò smettila, mi dirà ma se è orribile lo dico. Prenderà quello. Prenderà un’altra occasione, si lancerà su quello che trova.

E io continuerò a proteggere chi amo. Come posso. Anche lui.

 

[Photo by Annie Spratt on Unsplash]

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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