
Però la sera
Quando ritornano i fiati dei figli, imburri una fetta di pane e scosti ciocche di capelli: lascia stare i tuoi nodi.
Ritorna come sempre è stato in inutili cose indispensabili
Quando ritornano i fiati dei figli, imburri una fetta di pane e scosti ciocche di capelli: lascia stare i tuoi nodi.
Ritorna come sempre è stato in inutili cose indispensabili
È uno di quegli uomini che diresti immortali. Uno di quelli che non te lo sai immaginare giovane, l’hai sempre visto così, non sai nemmeno se sotto il suo Salve ha ancora qualche dente
Sono una che quando si mette in una cosa ci entra dentro tutta intera. Puoi chiamarla determinazione, concentrazione. Però se mi cerchi fuori di lì non mi trovi.
Devo imparare la soglia.
Entrare nei miei lavori e poi uscire, fluire. Dentro e fuori. Con piccoli spazi di adattamento, come la pupilla che si restringe passando dal buio alla luce.
Prima è un termometro sotto l’ascella, poi, per saltare, un’asticella.
Rincorre la mamma per farle una puntura, ma quella è veloce, scappa: ha paura.
Insegue tombini in un’altra invenzione,
ogni ringhiera suona la sua canzone.
La musica è come l’inconscio: tu non lo sai, lei passa e si fa un viaggio in parallelo, i cunicoli come le formiche. Ti fa una malattia buona. E, quando ritorna, scopri tutte le tegole dei tetti, tutte le pietre sul selciato e gli angoli che aveva disposto. È un architetto creativo e laborioso.
Io conosco questo, di voi: i nasi molli, le risse. Ma anche i baci. I “mamma!” estenuanti, ma anche le vostre verità. I verbi sbagliati, l’esattezza del vostro amore.
Questo so, di voi. Di me.
A me bastava poco. Di molte non sai nemmeno il nome. Però venivo da mattine in coppia con un bebè, passi sul corridoio avanti e indietro, un pc. Al massimo uno di quei bei giri fuori col passeggino, che mi riempivano, mi risagomavano l’animo, mi alzavano anche gli zigomi. Mi facevano il lifting al cuore. La gente no, però, di gente ne ho sempre vista poca. Di amici non ne ho mai avuti.
Alcune di noi erano già buone alla meraviglia. Io sono una di queste, avrei detto. Ma non è mica vero.
Ché formiche ne ho viste a migliaia, nella mia vita. Poi uno di voi ne ha puntata una: una soltanto. E io ho capito cos’era una formica.
Buonanotte alle case che siedono spente
Alle cucine alle camomille accese nelle notti lente.
Quella vecchia si siede accanto a me, la sua giacca carezza la mia. Non ho pensato a quanti anni ha. Io non penso mai agli anni, alle bollette che ognuno deve alla vita. Ho interrogato la sua gioia. Perché un labbro saliva sulla guancia, da un lato solo. E quel lato era il mio
È arrivato il sole. Quando entra me ne accorgo anche se gli do le spalle. Senza tanti cerimoniali lui si prende prima un trapezio minuto e smagrito sulla parete a sinistra, inghirlandato dai riccioli impressi dalle inferriate alla finestra. Poi si allarga, come un’idea che non accetta più di stare compressa in un angolo del cervello.
Arriva il sole, il mio saggio cane di compagnia
La trovi ogni mattina, ti basta che alzi gli occhi dal poggiolo di uno schermo, dal tuo sfogliare carte mai riordinate. Lei ce l’ha, il suo umile ordine cosmico: sta tutto in quei giri di ricognizione alla ricerca di un gatto che, scommetto, perde di proposito.
Il tempo ha ricominciato.
– Che fai?
– Semino.
– Cosa?
– Giorni.
Lo credevo in qualche campo assolato del sud. Va’ che qui cresce ben poco, rimarrai deluso.
– E chi te lo dice? Chi sei?
– Sono la padrona di questo campo, Signore.
Non lo sa. Lui va dove lo chiamano. Passa per le consegne. Un’ora lenta alle madri che hanno appena partorito, una ancora più lenta a quegli anziani
Con quella cosa qui, di tuffarsi senza più argini e illuminarsi tutto quanto, ché anche i capelli schiariscono, io non l’avevo più visto.
Grigliata. Per i più cool: BBQ.
Lo provo oggi e non lo faccio mai più.
Non fate finta che a voi riesce così, mille tizzoni ardenti con un click di fiammella, e aprite la sagra della salamella.
Stai lì, ti schiacci in dieci minuti. Sono sfollati i genitori, si sono presi i figli. Il punto di ristoro che avevo chiesto. Non me l’aspettavo così. Fa un po’ come quei bei paesaggi rurali, le spianate tra i campi, le risaie. E poi ci montano sopra un cavalcavia. Sarah, questa situazione: è il mio cavalcavia.
E certo. Perché i malinconici intristiscono. I bronciosi stufano. I ridaioli stuccano. Be’, anche i sempre-felici a me mi stanno un po’ sui cojoni. Così, per dire. Ma vi capita mai di aver perso le chiavi? Sì, insomma, che tutti hanno la chiave in mano, la serratura esatta, la destinazione. E voi c’avete solo la FACCIA-DA-BOH.
Alta, secca, i capelli a carré, ma proprio a piombo, che non starnazzano nemmeno se ci starnutisci sopra. Certe persone lo vedi da subito che sono il copia incolla del portamento che si portano appresso. Si accomoda alla cassa della caffetteria, la sento che nomina una festa di scuola, mi aggancio perché a me quelle troppo imbastite mi fan venire la voglia di scucirgli l’orlo per dispetto.
È un buon segno, quando lascio le cose a metà.
Se non c’è il vago tremore della foga, se le mani sono salde e danzanti, è un buon segno.
È il passo cadenzato dal desiderio. E non importa se sfugge alla logica, né se pare l’inerzia incantata di un bambino. Anzi, a me piace.
È il salto giocoso della curiosità. E non importa se poi non scopro chissà cosa: riscopro, almeno, la mia ingenuità.
Forse qualcuno aveva ragione, non so posare una mano sulla vita come la testa di un bambino, carezzarla e lasciare che vada.
Come ai cancelli di scuola
A volte sospetto di essere il cristallo. Tu
quella solida che se anche piange poi si rialza tutta intera
in un arcobaleno.
Fuori è rimasto un ricordo invernale nei capitomboli delle foglie arricciate, nella fanghiglia o nella terra dove lasciano corse i bambini. Nelle teste glabre degli alberi leggi, se vuoi, l’inconsistenza, l’incertezza di una stagione, la nostra stessa contraddizione. Di pieni e di vuoti, le prime bevute alle fontane e poi un tè caldo nelle caffetterie, le prime maglie sudate e madri che implorano rivestiti! Le prime righe incandescenti dalle persiane, i primi sorsi di sole serale. Ma anche le luci per la via, durante pentole sul fuoco.
Chissà chi sei ora
Domani chi sarai
Ho sbagliato mille volte oggi
Sono una madre che riparte da zero.
Il mattino è un gatto stanco
le luci accese nella casa accanto
le persiane ancora accostate, come nei giorni di sole d’estate.
La befana vien di notte
e dei grandi (pare) se ne fotte.
Di dolciumi riempie calze
ma si ruba le vacanze.
Vorrei per te un amore di carta
Da poter ritagliare con mani di sarta.
Lascerei ai bordi, spingerei fuori
Ogni isteria dei miei malumori.
Scriverei dentro, in grandi parole
È oltremodo dolce (se non comodo e veloce) quel tuo pappagallare.
Quel tuo ripetere, di ogni frase o parola, solo il finale:
tanto mi pare d’aver sempre ragione,
ché dico vieni, rispondi vieni,
ché dico nanna e rispondi nanna (magari ci aggiungi il no, ma fa lo stesso).
Se dico bene rispondi bene
Essere incinta: piangere tre volte in cinque minuti per una canzone. Per giunta di Britney Spears.
Buonanotte in questa notte
che la città rotola giù come un sasso da una rupe.
Voi in cima voi a valle
Voi le stelle.
Buonanotte in questa notte che sono nati Giada e Federico…
Non c’è niente di peggio per una donna che ingrassa, che avere un marito che dimagrisce.