E oggi, che ci battiamo perché le scuole restino aperte, per cosa ci battiamo? Di cosa abbiamo paura? Che i bambini non studino? Che si interrompa la sacralità di questo sistema sforna-cittadini, sforna-lavoratori, sforna-soldati operativi? Che cosa vi spaventa?
Nascere
È come costruire una diga e poi vivere sempre a valle. Lamenti che l’acqua è poca. Lamenti i temporali in cui l’acqua esonda. Di quella diga non hai memoria.
Sarà sempre colpa di chi ci piove dentro, di chi te la risucchia.
Eppure l’acqua è acqua, e circola come circola tutto.
Ora so cosa è successo: ora ho scoperto la diga.
Distanti
Papà.
Col becco bianco della prevenzione, come un pulcino sbagliato.
L’anatroccolo che ha perso il gruppo.
Abbiamo, tutti, perso il gruppo.
Ai sogni non piace la parsimonia
Il primo coraggio che serve, nella vita, è quello di lasciare ai sogni di venirci addosso
Lockdown generazionale: cura o ingiustizia?
Per otto mesi avete considerato pura ideologia battermi per i valori: la gente muore, quali valori? mi dicevate.
Per otto mesi avete fatto una campagna costante di minaccia.
Ma adesso che qualcuno ventila l’ipotesi di un lockdown generazionale, di colpo sfoderate valori e moralismi. Di colpo, la Vita torna a essere qualcosa che merita di essere vissuta al di là della prevenzione a tutti i costi.
Non si lascia ciò che non sei pronta a lasciare
Non si lascia ciò che non sei pronta a lasciare.
Perciò sii gentile. Ti prego, sii gentile.
Quello che non riesci a fare non riesci a farlo perché hai dei tempi. Non è solo il germoglio, non è solo il seme, il fiore, la pianta di cui si dice sempre. È anche morire, marcire, decomporsi, sciogliersi: che richiede tempo.
Quello che siamo
Mi daranno dell’idealista. Ma non sono io, idealista: siete voi, chiusi nelle menti, che hanno ordinato il modo di vivere, che hanno creato un sistema dove tutto è preconfezionato e nessuno grida: che l’imperatore è nudo.
Arriverò di là
Ma io un giorno arriverò di là. Sarò tra quelli che non ci sono riusciti, a solcare i mari senza scia. Sarò tra quelli che hanno sempre rombato col motore del cuore come un frullatore. Sarò tra quelli che la vita li ha azzoppati. A quelli fragili e potenti come noi, già sciancati dalla nascita, la vita mozza anche l’altra gamba. Sarò tra quelli che a un certo punto un incidente, un tumore, un licenziamento o un grilletto psichiatrico gli ha fatto saltare la vita e la testa. E cosa succede quando ti salta la testa? Che cominci a usare il cuore.
Nella salute e nella malattia
La vita non le farebbe, queste differenze che facciamo noi. Non le farebbe, le fazioni. Che se io sono contro le mascherine allora me ne fotto di chi muore.
Cos’è la vita
Sei quella persona che adesso legge qui e impara, piano, che è tutto un grande inganno, questo di dire stai buona, stai al tuo posto, la vita è tutta qui.
Basta abituarsi (?)
Il ragazzino bardato disinfetta mani innocenti, controlla a sua volta la temperatura, impone guanti palmati. Dentro, nel negozio, ombre finte, le marionette create dalle ordinanze. È un gigantesco televisore, è un cinema gratuito in cui posso non entrare. Che cosa ci è successo?
Inarrestabile
La vita vuole la vita. Quando rispondi, sai che la gioia di sprofondarci dentro, come è stato in quei campi di papaveri, di erba alta, è il solo antidoto alla paura.
La verità da cui scappiamo
Se andiamo sotto, ed è questo che oggi vorrei fare, siamo tutti identici: tutti, indistintamente, troveremo qualcosa da cui stiamo ripetutamente scappando
Quando tutta questa storia sarà finita
Quando tutta questa storia sarà finita ci sembrerà impossibile non che sia finita, ma che sia cominciata. Ci chiederemo in quale punto l’amore presunto è diventato rapimento, la salute tirannia, l’obbedienza ignoranza, e l’attesa paralisi
Gente comune
Vedi queste persone comuni, queste semi autorità che di solito dimentichi avere una vita oltre le aule in cartongesso.
Adesso pare tutto naufragato al largo di un mare che ci ha presi.
Adesso vedi le cucine, le sale, le credenze in arte povera, di questi docenti che improvvisamente diventano persone, donne, casalinghe. Madri.
Da #iorestoacasa a #iononesisto
Io oggi interrogo la quarantena, e certamente dissento dai modi. Tutti. A partire dalla mancanza di informazioni chiare, dall’esclusione in toto dei bambini dai piani di emergenza, da una scuola lasciata a sé stessa, famiglie lasciate a sé stesse, persone con problemi lasciate a sé stesse.
La civiltà di uno stato non si giudica solo dalle vite salvate grazie alla nostra obbedienza cieca per rispondere a un cataclisma e ai tagli fatti sulla sanità.
«Qui c’è il pianeta Terra»
Sto lavorando a un romanzo. Bisogna che mi ci metta prima di aprire i social, di collegarmi al mondo.
Di solito mi alzo, faccio colazione, mi assicuro che i figli siano bravi. Il telefono è una custodia che dorme, sul banco della cucina. Se compio l’errore di guardare Facebook, se ho lasciato Chrome aperto, i suoi tab come quelle file di lenzuola ai balconi, allora poi non entro più nel testo.
Stamattina è stato difficile. Avevo sognato Patrick vicino al portone del condominio. Non lo varcava, stava lì, guardava oltre il vetro: «Qui c’è il pianeta Terra».
Un giorno sarà sabato
Accenderai i social e troverai gite fuori porta, foto che superano il lavello stanco delle stoviglie, e i collage dei figli come se fosse un inverno interminabile. Chiusi nelle cucine, nelle cucce inventate sopra i letti. Nelle tende che lavi perché hai tempo. Nei divani spostati per darti l’illusione di aver cambiato ambiente.
Ti prometto: un giorno sarà sabato.
E di noi, chi si cura?
Un piano d’emergenza è, per antonomasia, un piano non pianificato: misure senza misura, improvvisate. Ma nel tempo bisognava cominciare a progettare la quarantena. Invece ci si arrangia. Ci autogestiamo, ci diamo consigli fai da te su WhatsApp, creiamo gruppi Facebook, e in quei gruppi chiamiamo psicologi volontari
Batticuori
Avrei preferito stare su piani più vicini al cuore, a quel battere che non è battibecchi.
Milioni di individui vivono una clausura impegnativa, e nessuno la racconta
«Meglio così che malati, io mi tengo stretti questi giorni». Tutti hanno questo timore reverenziale, che se ti lamenti di stare in casa poi viene la morte e ti bracca. Poi toccherà a te.
Le case di tutti
Ho avuto paura che se lo fosse rotto. Fai pensieri che non fai di solito. Se è rotto non possiamo portarti al pronto soccorso. Lo penso, non lo dico. Guardo: «Meno male, è il mignolo». Quasi a significare che allora anche se ne perdesse l’uso, non sarebbe grave. A che serve, un mignolo? Non avresti mai creduto di scartare un dito, dall’indispensabilità delle cose.
Domenica mattina
Non sarà valso a nulla, uscire da tutta questa storia come prima.
Non sarà valso a nulla dire: «Ne sono uscito più forte».
Non stiamo cercando di rinforzare le difese: la sfida è opposta, è lasciarle cadere. Smettere di indurirci. Diventare leggeri e onesti a noi stessi
Stare nella Vita per quello che è
Abbiamo fatto un sacco di progressi nel curare la malattia. Ma poco o nulla nell’accettarla.
Abbiate cura
Se la parola «divieto» vi fa paura, sostituitela con «responsabilità».
Se la parola «responsabilità» vi opprime, sostituitela con «cura».
«Cura» non nel senso medico del termine ma di «take care»: prendersi cura, accudire.
Ineguagliabile
Se tu provassi a vederti, o a fare una canzone, di te.
Vedresti che sei quella grandezza che degli altri ti pare evidente.
Paura del virus: giocate alla follia, giocate all’amore
Ridete più che potete, oggi. Più vi viene paura più saltate di gioia. Giocate a questa settimana nuova e diversa, fate una lista di quante magie può contenere, attivare, portare. Siate creativi. Stupitevi. Giocate alla follia. Giocate all’amore.
Una cosa chiamata desiderio
Ci sono desideri che nemmeno percepisco, perché la diga della paura li ha già cassati. Perché i «se» hanno già costruito barriere. E ci sono desideri che crediamo tali mentre sono debiti.
Il momento che ti metti la testa tra le mani sei già sconfitto: stai facendo conteggi, ma il desiderio è sgrammaticato, impreciso e una capra in matematica. Più sfogli i pro e i contro meno senti. Sarebbe come decidere un ti amo davvero da una margherita.
I fazzoletti stirati
«SCUSA» È UNA PAROLA CHE NON RICORDO MI SIA MAI STATA DETTA. «TI CAPISCO», NEMMENO. LA PACE SI FACEVA IN CHIESA, SI STRINGEVA LA MANO E AMEN
Sono cresciuta che un pasto pronto c’era sempre, non si sgarrava mai. Le cose per scuola, i regali sotto l’albero. La puntualità. I capi stirati. I fazzoletti di stoffa.
Ma se piangevo piangevo da sola. Arrabbiarsi era quasi vietato, non vedo cosa t’arrabbi a fare, avrebbe detto mia madre. I complimenti. Quelli non li ricordo. Quanto mia madre fosse fiera di me. Che si fidava di me. Che valevo. I baci. Nemmeno.
Perché non hai pianto, quella volta?
Perché non hai pianto, quella volta? Sotto quel banco a scuola, dentro un paio di guanti verso il metrò, in un vagone per un luogo che non vuoi più, davanti a quel volto stabile di tua madre, dietro a quell’uomo che se ne va, accanto a un’amica che non sa capire e in fondo alle scale di un palazzo? Nel chiasso delle giostre, in quella lattina che vi passavate e nell’ultimo giorno di stelle… Per un buon motivo e per nessuna, valida ragione.
Il treno
le mancano quei viaggi, quell’utero dello scompartimento.
Le sigarette che poi nascevano con chi infine te l’eri davvero incollato per gran parte del tragitto. E nei corridoi potevi ancora tradire la salute. Fuori correva il mondo e si abbassavano due dita di finestrino.
Le mancano quei sedili di pelle che sanno d’umanità, tutto quel vivere
A-proposito
Il mio proposito non è uno per un anno, è uno ogni giorno.
Non è una decisione, perché le decisioni sanno di forza, e invece scelgo la delicatezza.
Non è un impegno, perché l’impegno sa di fatica, e invece scelgo il desiderio.
Non è mentale, perché la mente ha gambe corte come le bugie. E invece scelgo un fremito.
Non è un target esatto, perché se mi concentro su un punto, perdo tutto il resto.
Il mio è un a-proposito: a proposito di me.
Il primo abbraccio che ho chiesto
Forse era da sempre, che io un abbraccio non l’ho chiesto. E invece si dovrebbe saperlo fare. Senza aspettare le gioie che saltano fuori come i canguri dai marsupi. Senza la scusa di un addio o di un ricongiungimento. Senza che un dolore o un lutto ci raggruppi le membra intorno a un corpo
Prossima fermata io
Bisogna sbucciare il cuore da tutto quello che ci abbiamo messo su. Il cuore mica ha così freddo. Ha freddo solo se lo tieni nascosto
Non stare con chi ha già deciso chi sei
Non stare con la gente che ti fa sentire un manichino. Che non apprezza quello che sei. Che non aggiunge valore alla tua verità. Che non sa cosa farsene della tua ricchezza.
Non stare con la gente che quando arrivi non ti chiede «raccontami quello che ami». Perché tu sei quello che ami.
Il viaggio
Per me i più forti sono coloro che hanno smesso di diluirsi nelle cose e nelle credenze, che sono andati sotto a prendersi, costi quel che costi. Chi è libero, chi conosce la propria, squisita verità.
Non amarmi in generale
Amami perché io sono questa. Non perché «tanto sei tu». Non perché sono tua figlia, tua nipote, tua sorella, tua moglie. Perché è ovvio. Non amarmi in generale.
Una donna
E l’attimo viene, la salva in una finestra rimasta aperta, dal secondo piano si cala al primo, salta. Scappa su quel calcagno fratturato.
Del viso non era rimasto nulla, rotta la mascella, gonfio di sciagura.
Del cuore non era rimasto niente.
Quanto dura un desiderio?
Mi piacerebbe vedere stagioni. Lo penso rientrando dalla cena dell’ultima sera, i gradini che muoiono nel buio. Mi piacerebbe vedere come la piazza si spegne, le strade allontanano i turisti, le botteghe tornano a dirsi cose sulla porta, pochi gli orari d’apertura. Fuori, qui fuori dalla cucina, lo scoiattolo verrebbe ogni mattina finché gli aghi persi dai pini somiglierebbero al suo colore.
L’imperativo di tornare
Perché diamo per scontato che il benessere sia in vacanza, e che poi bisogna tornare al dovere? Ma dovere di che? Ma che «dovere» è, vivere? Se tornare alla normalità ti fa schifo, allora vuol dire che quella non è la tua dimensione, non ha nulla di «normale» per te.
La meccanica del cuore
siamo quello che siamo quando abbiamo tolto i nostri sovrasistemi. Siamo la verità di una piscina che intorno ha il fango.
Ma bisogna andarci piano, con le emozioni. Trattarle con cura
Ma io sapevo di non poter essere sua
Disse hai dei bei fianchi. Raccolse la mano, la passò sul profilo sinistro del mio corpo. Ero vestita in modo semplice, quei jeans così larghi al fondo, e lunghi: i sabot spuntavano appena, come segreti. La maglietta lasciava fuori una luna di pancia ancora cittadina, pallida. Era un ragazzo per bene, uno che non osa oltre il dovuto. Uno che adesso il ricordo scava e gli lascia un collo nel nulla, nessun volto, più, nessun ricciolo ai capelli. Ma io sapevo di non poter essere sua.
Storture
Ma c’è sempre un gradino, per salire in salvo su un marciapiede. C’è sempre una maglia sudata, per arrivare a un traguardo. C’è sempre un corridoio di giorni esausti, per arrivare alla porta aperta. E anche nella più precisa delle giornate c’è un insulto che ti sei tenuta a stento, un basta che avresti voluto infliggere senza riserve
I matti sono liberi
Oggi s’è presa una panchina e ha fatto il feto in braccio a quella. E in fondo quante volte non l’abbiamo voluto anche noi? Morire su quattro lische di legno alla portata di tutti. E poi rinascere quando qualcosa ci fa click dentro. Quando la pioggia smette i suoi insulti e una voce bianca e buona, gorgoglia: «Rialzati».
Il cuore che scappa
Sono al Pronto Soccorso: mi vedo. La lettiga, come ci siamo arrivati? Nessuno può tenerci i bambini, quelle tre bocche spente che fanno bolle ignare a un muro da noi. L’ambulanza, mi vedo lì dentro, va bene, abbiamo tutti una forza sufficiente quando la forza è necessaria.
Nella sezione accanto
Mancano 45 minuti.
Perché non ho cercato prima? Perché non hai sfogliato quel solito Google come fai sempre, Madda? Perché hai dato per scontato che bastassero due pastiglie di Amoxicillina?
L’ultima primavera
Ci sono giorni in cui tutto tace e sembra fatto per lasciar venire. Il suono di campane che saranno, il corteo, una scatola di legno piena di fiori.
Dentro ci sarà una ragazza che cantava al coro della chiesa con me. Ma non sarà nel coro, questa volta.
Adesso lasciatemi
Che io perdoni. Tutto questo tempo sottratta alla vita e alla fiducia, ai figli e a me stessa. Tutti i mesi che mi sono sentita sbagliata, vittima di un cervello mostruoso che si mangiava i muscoli e i passi. Tutti gli echi come quelli negli androni, perché è così che fanno, le voci, dentro. Tutti i medici.
Non vedo l’ora
«Non vedo l’ora che sia domani».
Continuate a sognare, a non vedere l’ora che sia domani.
Siate eroi e principesse nell’attesa fibrillante di un costume sullo schienale di una sedia. E poi nel giorno che lo indossate. Indossatelo quando vi pare.
Noi la libertà la dosiamo, ma non lo sappiamo
Una volta ho scritto: «”Libera” e “sola”, è la stessa parola».
Credo che davvero «libera» e «sola» è la stessa parola: perché nessuno può scegliere al posto tuo. E allora è più facile mettersi in coda. Noi le code le saltiamo solo quando siamo in posta o all’INPS.
Fifty-fifty
«Non avevi paura?»
«No, mi affido», guarda in su, verso il cielo: «È così. Fifty-fifty, la vita e la morte».
La prima
Vi ricordate che cercavo una donna delle pulizie? Ho scelto di operare la cernita in base a una classifica che ho fatto sottoponendo alle candidate alcune domande. Queste mi servivano per capire chi, di loro, avesse più bisogno. Chi avesse figli da mantenere, per esempio. Chi venisse da lontano e avesse problemi di lingua. Chi avesse qualcuno malato da accudire, chi avesse più ore libere, perché vuol dire che ha pochi ingaggi.
Ti aspettiamo
Accade in poche ore. L’ospedale, la vita si chiude in una stanza mai vista, tra camici, notti, veglie. Paure.
Un attentato della sorte a una famiglia così bella in quella foto di Natale.
Siamo sicuri che i «bastardi» sono sempre gli altri?
Potendo scegliere, io scelgo un aiuto domestico donna, senza figli o con figli grandi, e che facilmente pagherò con quelle banconote in mano.
Il muro di cinta
Io scavalco il muro nelle persone comuni. Perché poi quando addento la brioche mi porto dentro un po’ di mondo.
Non è necessario vincere stanotte
Dalle date ufficiali mi svincolerei volentieri. Quelle che contano sono quelle che ho fatto mie, sono le vostre, sono le tappe della vita, non del calendario.
Fiaba di Natale
La gente ha dentro folle di lucine di Natale. Le trovi in certi occhi che sanno non scappare. Nella voglia di un panettiere di parlare. Nei soldi che non importa me li porti domani.
Perché il mondo è buono. Fottitene di chi dice il contrario.
L’imprevisto
Anch’io mi accenderei la poltrona shiatsu, già che sono qui a gingillarmi. Ma in effetti no. Potrei leggere. Ma in effetti no. Fare la cyclette. Ma in effetti no. La doccia, ma la caldaia è spenta. Siamo così ridicoli, sembriamo cavie di laboratorio in un labirinto santificato da tutti quei ceri accesi, dall’odore degli stoppini.
Ancora bambina
– Eccellente. Nessuno ha 99 di saturazione. 99 di solito ce l’hanno solo i bambini.
È questa che mi ha salvata, dice: – Eri messa così male, l’altra volta, che bastava crollasse la saturazione, di solito succede, scende a 70, e finivi in rianimazione.
Chi non cita la fonte, ferma la creatività
Riportare un testo, o anche solo un estratto, senza il consenso dell’autore, o senza citare la fonte, è non solo una violazione dei diritti dell’autore, della proprietà intellettuale, ma una mancanza umana.
Datemi una coppia
Datemi una coppia che lui la Gazzetta lei il ferro da stiro. Datemi una coppia che i festini sono fuori città, si è fatta un mazzo a lavorare e adesso ondeggia su una pensione onesta, però due conti e un po’ di sacrifici le hanno tirato fuori un bilocale a Selvino e gli piace tornare dove ogni bottegaio ricorda i loro nomi. Datemi una coppia che ha già superato i chiassi: delle passioni e delle liti. Una di quelle che ha ritrovato in un bicchiere di vino la capacità e la grazia di dirsi scusa senza passare dall’offesa
Mentre la via s’inzuppa di sole
Lì c’è la cima, ti han detto, tu sali e dietro trovi due vacche e due merde, ma la cima mica c’è: c’è un altro colle. Un’altra cacata bovina.
Però ho ragione, l’unica volta che non ci tengo ad averla, ho ragione. E una galleria di volti affabili.
La diagnosi
Mi ausculta, oggi mi sembra di avere meno rumori al torace, ma il suo orecchio ne bracca più di quanti potrei immaginare.
Non gli ho detto che mio fratello è asmatico, e mio padre e mia zia hanno la BPCO. Glielo dico mentre m’infilo la maglietta e torno al tavolo.
– E infatti sembra proprio che anche tu…
Non ho programmi, altri che questo
Dicono che è asma. Quella cosa che la notte rantolo. Adesso pensano all’asma. Sono mesi, anni che mi lamento, e nessuno che mi desse retta. Poi un giorno decidono di auscultarmi e mi trovano i bronchi chiusi come le botteghe a ferragosto.
L’oblò
Quand’ero bambina catturavo coccinelle e le mettevo in un barattolo di vetro che chiudevo col cellophane. Gli addobbavo tutto, gli facevo l’habitat. Il cellophane lo foravo con uno spillo rubato al set di cucito della mamma. È un po’ così che mi sento, come quegli insetti a pois. Adesso lo sapete.
L’amore è spostamenti
L’amore si sposta. Lo penso stamane, il frullare di ali e non sono mai loro: le tortore coi piccoli devono aver traslocato dal nostro Red Robin, ad ogni franco fruscio le cerco, ma vedo un piccione, un merlo, pennuti qualunque, senza significato.
Mathias è lontano. Spostato anche lui.
Il luogo sacro
Bisognerebbe pensare che non c’è niente, dietro, nessun complotto. Gli eventi sono solo eventi: il bel tempo, il brutto, la pioggia vale come il sole, la febbre vale come la salute, un batterio quanto una di quelle mosche che ripetutamente schiacciamo sui vetri con quella racchettina fucsia. La vita mica lo sa, che invece cambia tutto.
Stringo la mano alla storia
Le dico che sono una che s’incazza, avevo le palle girate per questa mattinata buttata via per colpa di un medico che non si è nemmeno scusato: – Però adesso vedo lei, e mi è valsa la mattina, sa?
Negli occhi mi si mette una gioia buona, folle e ingenua.
– Posso stringerle la mano?
Papà
Sono stati in vacanza, mio padre prepara santuari senza dirlo. Mi manda foto una dopo l’altra, mi tiene un po’ con sé anche se siamo lontani, in quei posti che ci ha insegnato da piccoli. E io le salvo tutte. Penso che non facciamo mai scatti di lui, che quando si è figli sono i genitori a farceli. Poi diventiamo genitori. E li facciamo ai figli. E un padre non lo fotografiamo mai
Portami al mare
È una grande bestia e un cucciolo. È il cielo e la terra in una volta sola. È la fiducia nel vento.
Il cacciatore di sogni
Adesso ha trent’anni, l’importante è proteggere chi ama, a costo di restare schiavo a vita, dice. La mano segna il suo disappunto, però gli occhi sono insetti vivi.
– Sei giovane, hai tempo per grandi progetti.
Sarah gioca ancora col lego sul tavolo, il ragazzo ha deciso di fare il subacqueo, va sotto e pesca: relitti di vita, d’infanzia, di lotte. Riscatti. Me li porta tutti con zelo, ricompone il rosone di quella chiesa a pezzi in cui l’infanzia non gli ha dato giustizia.
Ho finito il romanzo
Ho finito un romanzo che non ho mai saputo di odiare. Né di amare. Che, suo malgrado, ha deciso per me.
Il senso della polvere
Se ti piacciono le cose programmate, se adori il controllo, la polvere è il passatempo che fa al caso tuo.
Tra i grandi oneri ch’essa porta con sé, loro: i fottutissimi soprammobili. Il soprammobile grava sulle pulizie come la rata del mutuo sullo stipendio.
Vita di corte
L’affaccio è quell’azione dotata di sfumature di evidenza che vanno da “il coyote ti guarda” a “embè e tu che vuoi?”. La spudoratezza è sovente tratto distintivo che osservo con un misto tra fastidio e ammirazione, ché farsi gli affari di tutti senza il minimo senso del pudore richiede una certa destrezza morale.
Le persone sono storie
Segno il mio nome sul cartellino che poi dondola al collo, la mano sempre incerta, la presa delle grandi occasioni. L’emozione arriva sempre prima di me, in queste cose, sempre davanti, già nelle mani.
Ci salvano i messaggi, dove sei? Sono appena arrivata. Allora vedo Chiara, poi Eleonora, Nema, Angela: chi più sicura chi meno. Quando cominci non ti vuoi più fermare: è la giostra dei ricongiungimenti
“Non posso dirglielo”
Mi dice di sedermi lì in fondo, dove il vecchio aspetta leggendo un quotidiano, i manifesti su come estrarre il sangue dalle coronarie sono coperti da qualche altro avviso agli utenti che nessuno ha mai letto, sopra la mia testa la donna incinta che ricorda di non sottoporsi a rx in gravidanza, anche se questa è la sala d’attesa delle risonanze.
Fuori: un prato fitto e alto, trasandato, in un pozzo che adesso il sole azzecca tra le ali del palazzo.
– … gnora Capra -: sono già io, il mio nome col titolo mezzo mangiato dal corridoio.
La scala
Intanto levi tutto.
È questo, l’incredibile: la scala.
Scrivi per il blog nelle ore lucide, quelle che la febbre non viene a romperti i piani e il corpo. Cucinare, fare la cyclette, uscire: saltano via come mine.
Poi comincia che anche i figli mica li segui più. I figli diventano brevi “sì, prendi pure la merenda, non farmi alzare, per favore”, e poi chiavistelli
Se non avessi paura
Uscirei senza tornare a vedere se ho chiuso bene la porta, potrei andare a dormire senza ricontrollare il gas.
Ricorderei che un giorno buco è grembo per le acque, come la terra ha conche per il mare. Che scivolare non è sempre sconfitta, può essere un giro di bob gridando a squarciagola.
Se non avessi paura.
Distinguerei ciò che voglio davvero da ciò che scelgo per proteggermi.
Direzioni
Una svolta dopo l’altra si ripete lo stesso zigzagare, bivi ricopiano bivi già superati. L’estuario non arriva mai.
Mi fermo sull’argine. Mi manca quando tutto questo torrenziale spingersi non era indispensabile. Quando una giornata cominciava con un grido bambino e si spegneva in un carillon.
Il cuore oltre la siepe
– E semmai volessimo rifare il giardino?
– Può ricoprirlo, le costa…
– No, scusi, ricoprirlo de che?
– Tipo un piastrellato…
– Ma perché, scusi, è così irrecuperabile?
E insomma 700 euro se semina. Mille e rotti se ci piazza su il prato a zolle. Sai quelle zolle tipo Nuova Zelanda, verde Irlanda, anda qualcosa. Anda a cagher.
…
Quando andavo a (non) sciare
In questo periodo, quand’ero ragazza, andavo a sciare. Solo che non sciavo.
Un po’ di me: le mie domande. Con le risposte (2)
– Una vecchia sale sul bus, le lasci il posto?
– Sempre. Anche alle donne incinte o con un piccolo. Dopo le bestemmie che ho tirato quando ero io ad avere bisogno, mi sembra il minimo.
– Ti ringrazia e ti attacca bottone. Oppure non ti caga nemmeno. Cosa scegli?
– Se non ringrazia penso che stronza, se attacca bottone sono curiosa. A meno che sto scrivendo o sono visibilmente occupata. Nel qual caso penso che palle.
Un po’ di me: le mie domande. Con le risposte (1)
– Tre cose che non sei.
– Sofisticata, ottimista, sicura di me.
– Il momento peggiore della giornata.
– Le quattro e mezzo quando devo prendere i bambini a scuola. C’è tutto quel flusso mestruale incontenibile, devi azzeccare dove stanno i tuoi figli, poi aspettare che la maestra ti localizzi mentre ti sloghi il braccio per farti notare, in mezzo a cento altri che si slogano il braccio per farsi notare.
Le cose normali
Le cose normali non meritano attenzione.
Un giorno ti sballa il ciclo, non hai più la freschezza di quando potevi metterci dentro un bambino, in quelle macchie: “Magari sono incinta.”
E nemmeno quella delle ragazzine, “oh, Francy, mi son venute prima, cazzo.”
Sappiamo ancora sperare?
Una volta c’erano mille possibilità, prima del drammatico: “Non mi ha risposto.” Se avevi fatto dieci foto a un arcobaleno con la luce incerta, avevi una settimana per sperare che fossero meravigliose.
Il tempo delle notti
Sono insolitamente sveglia, eccolo quel tempo che potrei chiamare “mio”, alzati, Madda, va’ di là, scrivi, leggi, guardati una sitcom alla tv, prenditi la casa.
Ma la notte è piccola e trema. Non ce l’ha, quell’arroganza lì che noi ci mettiamo addosso di giorno.
Dove sei stata?
Sono diventata egoista, chiusa, arcigna, isolata. Perché a Natale nessuno ha voglia di sorrisi al contrario. Così vi ho protetto, così mi sono consolata.
Gli attimi
Quando è il nostro turno di uscire è tardi. Sempre tardi. Abbiamo speso venti minuti tirati, lei in quel fermo immagine di una brioche troppo lenta, morsi minuscoli e il tempo che sbrana, “dai Isabelle, che siamo in ritardo!” Salta su quel fusto esile di sua madre, galoppiamo con la fretta che si spegne passo dopo passo: “Pesi troppo, amore, non ce la faccio più.” Ad ogni non ce la faccio più mi incolla un bacio, mi fa ripartire. È il secondo, meraviglioso momento della giornata.
Una presenza gentile
Seduta esattamente davanti a me, nella staffetta dei posti a tavola.
L’ha capito, che qui siamo un po’ in burrasca, che quella spuma ariosa dei figli fa presto a diventare catrame. Una volta mi curavo di mettermi su un sorriso e poi modulavo la voce, come t’insegnano quando t’insegnano a cantare, la respirazione, il diaframma. Mi piaceva dare l’idea, cercarla, di essere una buona madre.
– Come sono le tue mattine, allora?
Niente da dire
M’immagino una sera senza niente da dire. Nessun grande discorso da fare.
M’immagino una sera di quelle che arrivavi e l’altezza massima dei figli era un metro, anche se li impilavi.
Una sera che tu entravi e la più grande domanda sposata col tuo ciao amore era ti sei riposata?
I figli sono la nostra coperta di Linus?
Quello che il professore non sapeva, è che avevo ricalcato la prospettiva. La prospettiva figurava tra le tavole richieste, e io non l’avevo mai imparata. Nessuno, me l’aveva mai insegnata. Ecco, se io ripenso a molte occasioni della mia vita, io sono uscita viva, forse perfino vincente, con la tecnica della prospettiva. Non per furbizia, né per pigrizia: solo perché interpretavo le aspettative dell’altro come limiti invalicabili, che non lasciavano spazio a un timido m’insegna?
Un nonno e un bambino
La vita li piega, per farli più vicini. Non è una schiena curvata dai mali, non sono mani tremanti, né bocche di denti insicuri: è solo il gioco di vivere per vivere
Ce qui reste
Mille volte questi scorci, mille più del Louvre o dell’Opéra. Queste vie a colori pastello, le mansarde aggrappate ai piccioni, alle ringhiere di ferro battuto, la Senna così ampia e materna, i giardini, le boulangerie all’angolo, l’Ile de Puteaux, la collina, il ponte. Le péniches attraccate, le nuvole che stanno per cadere e poi non cadono mai.
Un’altra Parigi
Poi si cammina, si segue la Senna, le luci sospese delle mouche, le ondate giapponesi verso i moli. Siamo turisti a metà, lui che sa tutto, nel suo, io che non so nulla.
Delle ore ce ne fottevamo. Ci svegliavamo quando uno dei due si svegliava. Quando la luce già comandava alle finestre. Tanto potevamo sempre tornare
Tempi da perdere, sogni da incominciare
Quando veniamo via abbiamo tre gioie ballerine nei sabot: Treccialunga ormai sorride e tra l’altro è diventata ultrasimpatica da quando sono scrittrice grazie a lei. Io ho finalmente il mio documento. E per la prima volta in vita mia siamo sfacciatamente in anticipo.
– Isabelle, insegnami a perdere tempo.
Se ti avessi vista arrivare
Ti ritrovo stamattina, davanti a brioche che dici, per spezzare il tempo, “ne mangerei metà”. Sempre un po’ indietro, uguale a prima, a quella gonna svasata sulle tue gambe ancora piene di sole e di sud. Dell’agosto che finiva. Entrasti a piccoli passi saldi
Ciao settembre
Ciao, settembre.
Non amo i propositi. Tu invece ne domandi a dozzine. Forse per questo non siamo mai andati tanto d’accordo. Ti ho portato alcune cose, vorrei che ci dessi un’occhiata. Ti ho preparato due grandi inizi…
Ballando, leggendo, mangiando
Una canzone, un libro, una ricetta.
Tre elementi dell’estate che rimangono, accanto a mucchi di foto e di attimi.
La canzone mi sceglie senza il filtro d’un pensiero: Despacito…
Tu digli che hai un divano
C’è una certa concitazione, in questi giorni. Sembra che chiude la vita, a fine maggio, tutti a sbrigare faccende e fare bilanci. Noi, in particolare, slalomando tra un saggio e l’altro e imprevisti in dosi non omeopatiche, solo adesso cominciamo ad affannarci per tutte quelle cose insolute che ti vien voglia di risolvere prima delle ferie. Così, per partire senza rimorsi. Ma i due leitmotiv degli ultimi giorni sono il letto a castello da comprare ai bambini e il viaggio imminente in Alto Adige
I blogger che amo
Amo i blog che discorrono con uno stile curato, che bisbigliano e al momento non t’accorgi. E poi quando vai per mettere su la pentola della pasta non sai come ma hai quella frase che ti rantola dentro.
Amo i blog delle grandi sfide, delle battaglie personali. Quelli che entri enorme ed esci piccolo. Però non sminuito: solo più proporzionato da verità che era giusto conoscere. In quelle dimensioni ritrovi la bocca grande del mondo e capisci: che sei solo una vocale.
Sono tua zia
Sono quella che venne un mucchio indecente di anni fa. Che venne un sacco di volte. Prima dei miei figli, tra un amore e l’altro, un lavoro e l’altro, quando il nomadismo del cuore si accordava agli aeroporti
Amarsi
La mia storia la conosci. Te la ripeto in mille voci e mille sere, nei viaggi coi finestrini accesi al buio, le folate dei miei capelli, davanti all’autoradio. Mi dici non importa, posi quel mento ossuto a pungere di barba una tempia: “Io aspetto.”
La piccola libraia
Ti chiedi perché, di tante botteghe così belline qui nel quartiere in mezzo a gioielli di piccole corti custodite con zelo, la libreria tutto sommato la frequenti quasi meno dell’elettricista perché le lampadine le prendi al Carrefour, del macellaio perché non sai comprare un taglio di carne, del corniciaio perché ti basta un plexiglass del Brico. Comunque esci a passo vagamente urgente e, sebbene siano le 12.29 in punto, il punto è che la bottega è chiusa. E inizi a ricordare il bello e il brutto dei piccoli commerci.
Dottori. E cose rimaste
Mi hanno dato il cortisone.
Arrivo allo studio che il medico è già lì. Su una porta aperta, buonasera. L’ho fatta aspettare?
Invece è cordiale, un uomo con un suo portamento nobilitato dal camice, brizzolato nei capelli e nella barba. Anche nei modi, invecchiati dalla professione eppure a tratti capaci di ritrovare una giovialità amicale.
Non basterà.
Il matrimonio
I bambini erano contenti perché avremmo preso il metrò. Io sento il valore, più che il cerimoniale. Non l’ho pensata come questa grande cosa, mio cugino non è uno da giacca e cravatta, poi farà questo rinfresco in un parco semplice e nudo dalle nostre parti, sotto l’acqua prevista dai meteorologi. Lei è già la madre delle loro due figlie, vivono insieme da quanto? Ne parliamo lungo la banchina, Mathias si è infilato una camicia casual, io ho i jeans e gli stivali invernali, la giacca abbottonata
La gente è un ottimo passatempo
Era ancora lei, tagliata in due da una cicatrice sullo sterno.
Simona.
Larghi occhiali, larga bocca, denti intonati allo studio dentistico dove lavora.
Ha un garbo posato, liscio quanto il suo ciuffo lucente sulla fronte, se spingi un po’ le scuci quella sua accento del sud. L’altra volta è stata i miei dieci minuti di attesa dopo l’intervento, mentre Mathias tornava a prendermi. Le persone sono una buona attesa. Una buona panchina mentre aspetti il verde.
Un passo dentro, due fuori
In tutta la vita, in tutto il mondo, ogni giorno, siamo soggetti a regole, coordinate, compromessi. Cosa, e dove, si è follemente liberi?
Nelle passioni.
Investire in una passione significa addomesticarsi. Promuoversi, stringersi e poi allargarsi a un ritmo che non è più solo quello del tuo respiro, del respiro delle cose e delle parole. Investire in una passione vuol dire che quando fuori tira una brutta aria quel gancio salvifico che ti ancorava ai tuoi visceri è proprio ciò che adesso traballa nel vento
L’urgenza e la premura
Oggi fa figo fermarsi. E raccontarlo.
E nessuno parla più di urgenza.
E invece la fretta ha il suo valore. Indiscutibile. Lo stesso argento dell’ardore.
Sei un pallone lanciato con sicurezza, non guardi gli spalti, hai mille canestri e mille tiri ancora, la fede nelle mani.
Nulla si distrugge
Spinge coi piedi in pantofole rosso sangue, uno via l’altro, come i tricicli senza pedali dei bebè.
Guardo quell’unico vezzo rosso, le giornate rimaste con la sola compagnia di una sconosciuta che qualche figlio paga. Il fine settimana riavere un pezzo del grande spettacolo.
Perché è stata anche lei, forse, un grande spettacolo. Prima di stingere.
Il rischio delle piccole cose
Mi metto in piccole cose. In testa, nei fatti.
Il film di stasera. Cosa cucino.
Sai com’è facile bastarsi in un menù, sentirsi possibili in un cucchiaio che rimesta il sugo.
La fioritura
Eppure non un solo albero è stato piantato per me. Per me nessun fiore è venuto, e la fontana non ha riso.
Finché non ho incrociato la sua primavera per mano ai miei figli, in quei pochissimi giorni che fanno il miracolo.
Scarpe basse
E fu il Salone. Il grande fermento.
A ben pensarci fu una gran cazzata decidere di vedersi proprio allora. Uno di quegli appuntamenti che partono mesi prima, e poi scusa non posso, e dobbiamo rinviare, e avevo dimenticato un impegno. Mi sono ammalata ti richiamo.
– Vado al fuorisalone. Ci vediamo?
Perché non hai detto no, Daria? Che te ne fotte, a te, di quel design che comanda sorrisi a bacchetta, di tanti fricchettoni compiacenti, di tutti quei crapetti luccicanti di lusinghe?
Quando un (buon) libro finisce
Poche parole, mezza frase… punto. Il libro è finito.
Adesso stai lì, l’hai chiuso come pesasse, come fosse di sasso. Ciondola tra le dita, hai l’occhio fermo sul dorso, il suo titolo galleggia.
Ci sei dentro anche tu, ci sono le tue ore, le volte che hai lasciato squillare il telefono, le cene preparate in fretta, i bambini che chiamano. C’è dentro il tempo che gli hai dato e c’è il tempo che ti ha dato. C’è quello che è successo lì dentro e che è accaduto fuori. C’è che adesso vi somigliate un po’, perché un libro somiglia sempre a chi lo legge e chi legge finisce col somigliargli un po’, come due che si annusano, prima, e poi si amano.
Gli altri
Non crederci.
Ci sono giorni che come esci il sole s’incaglia tra case diventate torri e ti tocca la lingua sottile d’asfalto nell’ombra.
Ci sono tempi che gli altri hanno il loro portamento elegante, e tu sembri l’unico palo piantato storto nella neve. Che ognuno ha una bussola senza sgarri e tu un dito leccato nel vento
Siamo una buona spedizione, noi
Mi hai accompagnato a fare l’eco al cuore. Hai guidato, hai parcheggiato.
Nel tempo di un caffè ci somigliamo, ci somigliamo davanti all’infermiera che sbaglia ricetta: “Le urine le ha portate?”, per un semplice esame del sangue.
“Sì, le ho sempre con me”, ridi dalla terza sedia che cambi, mi segui col giornale che non si è mai aperto, da un punto all’altro dei miei pellegrinaggi medici.
Le tue battute hanno vita facile con me, sai che è una buona spedizione. Siamo una buona spedizione noi, papi, due mongoli che stentano a ritrovare l’uscita e poi si chiedono chi ha rubato, di due che erano, un ascensore.
Coraggiosa
Abbiamo tutti i nostri coraggi e i nostri an-coraggi. Abbiamo montagne di vestiti sulle spalliere che diventano corvi neri la notte. Abbiamo lucchetti che si aprono con un bacio e poi mani che non basta un tornado.
Abbaio in Fa Maggiore
Mio marito l’hai estratto a forza dalla sua consueta mansuetudine. Quella domenica, un anno fa: io stavo preparando i bambini per andare a comperare una torta in pasticceria. Eravamo allegri e ridenti come dei fessi. Che meraviglia, essere fessi… se lo sei di tuo. Invece tu volevi farci fessi a noi.
Ho messo fuori la faccia, ho provato a stare zitta, ma a certi padroni di cani se gli fai un appunto su quell’abbaio perenne la prendono sul personale. Gli basta che cominci la parola: – Scusa, volevo chiederti se per favore potevi educare il tuo c…
– Ma che cazzo vuoi? Maleducati semmai siete voi.
Il limite
I limiti sono anche un contenimento, il parapetto di noi stessi, non sono mica solo stronzate, ombre dettate dalle nostre paure, dalla nostra zoppia. Bisogna vederlo, che avanzare a volte non fa “avanzare” nulla, che vai avanti ma cosa “rimane”? Di te, di quello che poi ti volti e capisci che hai lasciato indietro ciò che più conta.
Me ne accorgo una sera. Che mi aspettavo una barca di sorriso sui denti, ormeggiata e beata. E invece ho una cucitura stretta. I piedi allineati sull’ultima sigaretta del giorno. Quando vado di là, per salutare i miei figli che dormono, io vedo.
L’equivoco
Comincia a scrutare, se viene a piedi, col motorino, se ha quella giacchetta di pelle, oppure la felpa rossa che di solito lega storta in vita, così bassa da arrivargli a mezza coscia. Vorrebbe il coraggio di una sigaretta, mettere le mani da qualche parte, invece se le passa due volte, tre, sulla maglia, sgualcendola un po’.
Fa due passi verso le vetrine, le servono a controllare capelli e mise, quelle sue gambe scolorite che scappano dai jeans. Ogni minuto che passa la bellezza si sfianca, ero migliore appena uscita, fallo arrivare, dice a un dio che non ha.
E finalmente è lui.
La verità sui blogger
Nella mia ingenuità credevo di scrivere per scrivere e perché qualcuno leggendomi trovasse qualcosa: di nuovo, o di antico, un barlume che ti fa dire “è vero”. Ma se non cominci a inseguire il corridoio alla ricerca del varco, e se non spintoni, fai come me. Fai come me e pochi altri che a sera raccattano quattro pollici su dai social dopo ore di lavoro, due commenti di gente affezionata e che prontamente ringrazi, e resti su: l’aeromobile vuoto.
L’ago della bilancia
Al portone c’erano un uomo e una donna, sull’uscio aperto era chiaro aspettassero di entrare oltre, nella corte del palazzo e poi dentro, nel centro analisi. Me ne frego, procedo, seguo la promessa delle luci accese, le file dei neon già corrono incandescenti oltre le finestre del laboratorio. Ho due frette che mi ballano nei piedi: quella di tornare a casa, quella di levarmi il pensiero.
L’ultima serranda
Chiusero come aveva già chiuso altre piccole attività, piccole fini consumate nella cucina con mia madre, e che a noi, bambini, non arrivavano da una porta socchiusa. Perché mio padre lavorava di brutto, ma le brutture a casa non le portava mai. Se le scrollava fuori, come i cani da una pozza, passare dalla soglia era un gesto sufficiente al sorriso.
Oggi finiamo
Ero l’unica che piangeva.
Qui nessuno ha sentito la solennità della fine. Qualcuno dice è un inizio, io tiro fuori quella parola che fa sempre effetto, il giunto delle rotaie, che vai avanti, ti fermi, torni indietro, comunque lo senti, quel gradino che fanno le ruote, il piccolo sobbalzo. E un po’ sembra un breve sgomento.
Una casa
Poi, mi è capitato di passarci accanto. Ogni tanto un occhio osa sui balconi, li spio dal parco giochi della piazza poco lontana. Vedo se è cambiato qualcosa, se la macchina del condizionatore è ancora lì, se hanno messo fiori sulle balaustre. Di che colore le tende. Il tempo di un sussulto non è mai arrivato.
Mi arriva adesso, breve, dopo sei anni. Che io cammino e la nebbia respira con noi. E su quella vetrina senza valore, tra molti, mi trova: la mia casa di prima
La continuazione dell’amore
Fuori, i lampioni, la città che sgrana gli occhi. Il mio biglietto dell’autobus in mano. Sono di nuovo sola, quando m’incammino. Sono di nuovo sola quando qualcuno dà un colpo di clacson. E io mi volto e vedo: sono venuti a prendermi.
Tutti quanti. Tutti lì dentro alla monovolume. Ad aspettarmi
Non è vero che amo i bambini
Quando sono arrivati loro le avevo appena detto adesso andiamo. Ho pensato per fortuna. E per fortuna lei mi ha obbedito.
Raccolgo la bambola dalla panchina.
– Quella è mia.
– Non è assolutamente vero.
Sono ferma. Davanti a me una bambina con una bocca dura, dove i denti definitivi hanno già spodestato quelli da latte.
Dietro, un nugolo di altri ragazzini, nessun adulto. Rom. Figli della strada. Di quei panni, penso. Di quella borsa blu che però non vanno a toccare.
Tuttavia
Vedi il fatto è che io una volta mi svaccavo sulle panchine, la musica pigiata nelle orecchie, la gente mi guardava, ma me lo potevo permettere. Abbandonata e stesa come un barbone, mi guardavo il cielo, ed era meglio che guardarsi dentro. Alla fine dentro ci vedevi meglio, capovolta così. Una volta potevo essere randagia, sovversiva, fare a pugni. Stravaccarmi. Adesso sono una signora di mezza età, mica basta un piercing al naso a darmi il beneficio della panchina. Adesso che faccio, quando la vita mi sputa addosso?
Ci vuole una scusa per volersi bene
Quando mi ha proposto questo pranzo ho pensato che mio fratello e la sua neo moglie aspettano un bambino.
Poi ho pensato che qualcuno stava male. Mio padre. Adesso mi dicono che il medico l’ha visto, gli ha detto che.
E per un attimo il cuore mi si è messo a lanciare sassi, dentro, mi è preso un colpo.
Dove comincio io
FA UN GRANDE EFFETTO SBIRCIARSI DENTRO SENZA SCUSE, NEMMENO QUELLA DI SCRIVERE
Io.
Quando mi siedo faccio come faccio sempre: cerco. Qualcosa di familiare, una zattera. Trovo la maniglia della porta bianca, penso che è identica a quella del mio studio. Le tapparelle alle finestre, la casa dei miei, la camera dove sono cresciuta. Cerco le mie difese.
Ha qualcosa di sacro quella stanza. Senza dei.
Ha qualcosa di sacro lo spazio. Uno spazio che poi lei entra, entrano le altre, entra l’unico uomo, e quella parola torna e ritorna.
Milestones
SALENDO PENSAVO UNA SOLA COSA: GRAZIE
Conobbi San Bernardo un giorno che il cielo era incazzato. Il mare ruminava schiumando come la bocca d’un vecchio. C’era qualche surfista, tavole incerte su onde già piccole per loro, già grandi per me. Ero venuta a Bogliasco per quei tre giorni che a giugno mi dedicavo da ragazza: creme solari, costume e stuoia stavano ancora in valigia. Il cielo non ne voleva sapere
Fertility day: perché non mi unisco alle polemiche
PERSONALMENTE C’È QUALCOSA CHE TROVO PIÙ FASTIDIOSO DELLA CAMPAGNA, ED È – APPUNTO – L’INDIGNAZIONE SPIETATA DELLE DONNE A TALE “INVITO”. Lo Stato deve creare i presupposti per fare figli, anziché fare una campagna cretina e offensiva. Nidi, scuole, lavoro, riconoscimento dei titoli di studio. Nessuno può darvi torto. Però diciamoci le cose come stanno, la natalità è diminuita anche per un’altra ragione imprevista: abbiamo meno voglia di figli. Non è che in passato ci fossero molte politiche per la famiglia, eppure fare figli era considerato normale. Ora, semplicemente, non lo è più.
Un fratello
Ti sposi.
Mathias dice che è perché sei il mio fratello minore. Per questo fa effetto, un sorriso e poi giù, come un piccolo sbrego nella tasca. Come spingerci dentro il pugno della mano.
Perché sei il bambino che spingevo nel carrello, il sabato pomeriggio al Pam, la grande spesa del fine settimana, quella in macchina con papà. E, mentre spingevo nei miei piccoli nove anni, le mani salde su quel manico pubblicitario “PAM” con il suo logo rosso, aspettavo: che mi vedesse qualcuno. Convinta di quell’ingenuità portentosa e ineguagliabile che hanno i bambini, “penseranno che sono la mamma.”
La donna che non venne mai…
E adesso capovolgi i tuoi figli: fino a ieri ti sei ingoiata il malcontento per il loro stridente lamentio, gli hai pure detto “oggi merenda in salotto”, che tanto poi veniva tizio a pulire, eh? Chissà chi ci mandano. Tutto organizzato. Adesso li sbrani se cade una piuma dal divano, se in cucina c’è il segno di una crosta di pane.
Ti eri già vista, i carrelli della spesa, con calma, faccia prima la cucina che quando torniamo così mangiamo. Tutto pianificato.
Novità e solitudini
Aspetto lo scatto, la fine della canzone. Corro giù per lo sterrato, e poi su, oltre il ponte con le sue acque agitate. La mulattiera delle lumache senza guscio, delle grandi cacate di cavallo. Saluto il cavallo nero che chissà “dov’è andata la sua mamma?” e finalmente sono di nuovo a casa. Sulla porta c’è un cuore di campanelle. Scodinzola come un cane quando arrivando la apri.
À la française
I bambini li abbiamo caricati senza nemmeno accorgerci, hanno fatto il pieno di carburante, c’è tanto di tutto, le imposte che anziché fuori sono dentro, sono separé per nascondersi: Isabelle, siediti, mangia! Sbucano solo i piedi, il purè è rimasto nel piatto. Le scale si fanno col sedere, alla decima rampa un paio di brache è già bucato: adesso ci puoi fare il fantasma fucsia, ci metti la testa, l’elastico in fronte, poi guardi dai due grossi buchi. Si salta da un divano all’altro, si buttano peluche da sopra, dal soppalco, si gioca al camoscio a quattro zampe, si freme
SwimmingPOOR
Non me ne vogliano gli amanti dell’acqua: è vero, l’acqua è il nostro elemento primordiale, a livello di grembo materno. Ma se non cresciamo in una boccia di vetro, in un acquario o in una vasca, una ragione ci sarà.
Discendiamo dalle scimmie, non dai pesci, per cui meglio volare basso (non discendiamo nemmeno dagli uccelli).
Allora prendete una donna che di cognome fa Capra e i suoi tre figli che hanno visto il mare tre volte in tutto (l’ultima figlia: zero), portateli in piscina. E immaginate com’è andata.
Il senso di piangere
Piangere è una buona cura.
Lo sanno i folli, i vecchi, i bambini. Le donne incinte che ballano negli ormoni in tempesta. Lo sa il neonato che la natura l’ha fatto così. Perché se sorride per chiamare sua madre e quella sta guardando fuori dalla finestra: se arriva il marito, se arriva l’amica, la sera. Se spiove. Chi si accorge di lui?
Piangere è una cosa seria.
Anche se sembra un’idiozia, un capriccio. O una reazione chimica, molecole d’acqua e sale.
Lo sa chi ti ha visto quella volta. Chi ha capito
Transizioni
Alle nove di sera siete a tavola, hai scongelato il pollo, nessun ristorante o autogrill, solo la vostra, banale, cucina. A letto i figli, ti butti sul divano. Alle undici e mezzo dormi e finalmente ti credi salva. Hai schivato l’addio.
Invece il mattino dopo suonano quelle campane della domenica, fai bolle di dormiveglia nell’alba, brevi ricordi, immagini di ieri mischiate ai bianchi e neri di oggi. Hai finito. E adesso ti arrivano addosso, tutti insieme, i titoli di coda
Abbiamo tutti i nostri vetri rotti da nascondere
Il pomeriggio che Mathias ha recuperato il pallone e si appresta a giocare una partita con Patrick, la bandiera è stesa al suolo. Nessuno ha notato che il vaso è scomparso. Ho guardato quello stendardo a terra, mi sono chiesta chi l’avesse adagiato con tanta precisione. Qualche ora più tardi le voci dei miei risuonano ferme, lì fuori. Intorno al tavolino che ha smesso di traballare anche lui, quasi: “Dovevi dirlo. È pericoloso. Dovevi dirlo.”
Grandi spazi e minuscole ferite
Ti siedi lì, e la solitudine si mette a ballare. Non se ne va: quasi si amplifica, diresti, sotto quelle vertigini. Invece ti si accoccola in grembo e, coi minuti, si ritira, ti si infila in tasca. E tutti quelli che hai intorno sono uomini ognuno con la sua piccola scorta di cuori e silenzi nelle tasche, nelle mani, nei piedi su quei grandi scalini. Sei parte di un tutto.
Avevo dimenticato le proporzioni degli spazi aperti, gli infiniti urbani.
La paura è un filo stretto
Non ho molto da insegnarti, a riguardo.
Rassicurarti senza deriderti. Senza minimizzare. Questo posso.
Dirti che ne avrai sempre. L’oratorio di oggi, la visita medica di domani. Un nuovo incontro, un vecchio pensiero. Che c’è quella positiva, della novità buona, delle sfide. E quella delle sciagure, dei tumulti. Quella di ciò che desideri e quella di ciò che rifiuti. Ma in fondo se non è eccitazione, sempre paura è, ragazzo mio. Il suo gusto acido ti farà comunque stringere i denti, strizzare gli occhi. Ingoiare a fatica
Country roads
Ripenso a quelle sere dal collega di cui mi ero invaghita, a come tenevo la nota quelle volte. Come la mano di uno sposo, come la testa di un neonato. Ferma, alta. Non potevo lasciarla cadere.
Ale mi guarda. Siamo lui e io, che cantiamo. Dan suona, spazzola le corde, le pizzica, le rilascia.
“Canti bene.”
“Anche tu.”
Non devo pensare alla vergogna. Ai suoi cuscini allineati sul divano accanto al chitarrista. A quel finto guizzo creativo di due mattoni lasciati a vista. Ai miei figli di sotto, alla madre che sono. Che potrei essere pure la sua, di madre. Quasi
Indietro
È strano come nascono certe scelte, come maturano decisioni veloci. Come in un attimo sei in quella casa di legno e poco dopo hai già riempito la vettura di nuovo, e rifai tutto, tutto al contrario. Svuoti gli armadi che hai appena riempito, riempi il baule che hai vuotato otto ore prima. Percorri la strada, la stessa, a ritroso. E anche le bocche di tutti, si sono capovolte.
L’uomo alla porta
– Carino – si porta il dito al naso, guarda il mio piercing. – … L’orecchino. Peccato che è al naso.
Taccio.
– Sono tornato.
Non dice salve, buongiorno, sono tizio. Forse si chiama “Tornato”.
Non l’ho mai visto. Dice di essere già stato qui, vorrei correggerlo, lascio stare. Mi allunga un foglietto, lui nei suoi quaranta centimetri quadrati oltre lo zerbino, io di qua, le ciabatte da massaia sul gradino della soglia
Non sei nessuno
– Cosa fai tutto il giorno, tu, mamma di 3 figli?
– Un cazzo.
– E st’estate cosa fai?
– Isabelle starà a casa con me, Patrick lo mando all’oratorio estivo, Sarah alla sezione estiva dell’asilo non la prendono.
– Ah no, e perché?
– Perché non faccio un cazzo.
L’emporio
Mi fanno una certa desolata pena quei negozi che trovi vuoti nel bel mezzo della mattina.
In vetrina la signora ha sistemato tutto per bene, segue le festività, le ricorrenze con rigore scientifico e, intanto, fiabesco, ché confida nel piccolo miracolo aggrappato ora a un dormiente Gesù bambino, ora a una neve carnevalesca di coriandoli, ora a pulcini di pelo finto. E così addobba fedele le luci e le pareti, un sorriso gentile sulla pelle pallida.
Ogni tanto qualcuno si ferma, sbircia.
“Entrate, entrate pure!” li invita quella da dentro
La prospettiva dei giorni
Quando l’ho vista arrivare l’ho riconosciuta subito. Ho una buona memoria fotografica, i visi non mi scappano mai. Perdo il nome, di solito, invece sta volta il ricordo non m’inganna, la imbrocco al primo colpo: “Ciao, V.”
Quella mi scruta da dietro gli occhiali scuri, tentenna.
“Sono la madre di Patrick.”
Allora sorride. Mi ha ritrovata nella memoria.
“Hai tagliato i capelli?”
Si comincia sempre da una cosa qualunque. Potevano essere gli occhiali da sole, la giacca nera, il caldo di oggi, com’è cresciuto tuo figlio. Invece ho scelto i capelli.
C’era una volta la neve
Sono abbastanza vecchia da ricordarmi la grande nevicata. Non abbastanza lucida da rammentare l’anno esatto. Ma le scuole chiuse sì. E anche quei muri alti come case, forse ero io ad essere piccola, ora fa così effetto poter dire “io c’ero”.
Ecco, non dico una neve così. Mi piacerebbe. Spauracchio di molti, mi fa ridere lo spavento della gente, l’intirizzirsi di corpi spaventapasseri che hanno paura di cosa, di acqua stellata? Una neve così lo capisco che è rara. Ma almeno un po’, quanto basta a distrarre il cemento. A tirarci su gli occhi, farci stare su una gamba mentre la guadiamo, gru che saltellano stordite dalla novità.
Sabato mattina
IL MONDO È ANCORA BUONO
Il sole addosso all’autunno, scova teste già fuori casa, ombre colano dai marciapiedi, il panettiere è già al secondo giro d’infornate, aromi si mescolano con l’odore del primo mattino.
Qualcuno dice “sai di essere madre quando andare dal droghiere da sola ti sembra vacanza.”
Invece ho chiuso il mio cappottino, stretto stretto, rasento il muro come una clandestina, inseguo la strada fin dove volta, poi un gomito di asfalto e infine la piazzetta: sto andando a fare gli esami del sangue. E non mi sembra affatto vacanza.
Un giorno senza (pc, iPad, smartphone)
SE OGNI TANTO NON FAI NULLA, NON AVRAI NULLA CHE I FIGLI POSSANO INTERROMPERE, FACENDOTI INCAZZARE.
Qualcuno perde il cellulare, altri restano orfani di un pc che ha tirato le cuoia, di un tablet che si è improvvisamente impigrito.
Io, senza arrivare a cotanto sgomento e disorientamento, già anni fa avevo inventato la giornata sabbatica: una giornata di dieta depurativa in cui fare a meno di questi orpelli. Certo, ai tempi ero incinta di Patrick: replicare adesso, con due su tre figli a casa non è propriamente “sabbatico” come allora. Ma ho voluto fare l’esperimento.
E, come in tutte le esperienze, ho imparato alcune, fortissime verità…
Però intanto è settembre
Una volta c’era la Vestro, il Postalmarket: arrivava il catalogo autunno-inverno, e allora tornare e aspettare l’autunno aveva tutta una sua magica ritualità. C’era sempre la bionda capello sbarazzino cui volevo somigliare: io, castana, chioma lunga e sfigata. Il “pull” grigio melange, lavorato a coste, il collo morbido e i pantaloni a sigaretta o un kilt con calza coprente…
Prospettive
Lui e il suo cagnetto senza arte né parte.
Una volta lo incontravo con la fidanzata: “Uscite per un aperitivo? Ah, bei tempi…”
“Ma che aperitivo, quello ormai è roba vecchia, non si fa più. Si esce per un calice di vino.”
Un calice di vino.
Poi dei tre sono rimasti due: lui e la cagnetta. Il mattino alle otto, la sera alla stessa ora. Esatta. Forse anche il vino è sparito, chissà…
Di due cose ho paura
Sono le nove meno un quarto: il tempo delle madri ha l’ora dei bambini. Le nove meno un quarto sono pigiami e spazzolini. Invece sta sera va diversa: qui in una sala d’ospedale, altra gente abbronzata, vecchi col naso e la schiena ingobbiti dagli anni, parenti che parlano, parlano troppo.
Mathias mi ha portata, tutti e 5 in macchina. Poi ha cercato una pizzeria per far cenare i bambini: mi arriva una foto su WhatsApp. Mi chiede se mi serva qualcosa: “Solo voi.”…
Variazioni di luce
IL VENDITORE RESISTENTE AL CALDO, ALLA DONNA IN PIGIAMA E AI BAMBINI
“Sì?”
Dallo spioncino avevo capito che trattasi di venditore porta a porta, ma ormai come potevo fingermi assente, che avevo appena imprecato “cazzo è?” giusto al di qua dell’uscio e al cospetto di tre infanti…
Ode alla sciacquetta
La sciacquetta parla piano, la voce flebile, scandisce parole soppesate, trattenute senza sforzo. Sa darsi il tempo di pensare prima di aprir bocca. Un tempo lungo che lascia agli altri di abitare liberamente. Non ha fretta.
Cammina con flemma anche quando è in ritardo, conosce il tempo e non ne ha paura.
Entra nella stanza con il viso chiaro, il trucco a posto, un bel vestito. È sempre in ordine. Il capo leggermente chino, avanza cauta ogni richiesta, anche…
Siete voi, il senso di questo spazio
…Si può essere utili in tanti modi: fare informazione e dare consigli sono quelli più diffusi.
Io ho scelto un’altra strada: la narrazione. A volte emozionante, altre ironica. A volte letta da molti, altre da quattro gatti.
Quando ricevo i vostri apprezzamenti non è solo la scrittrice che si gloria: è la parte bella di me, che esulta per la gioia semplice di aver dato un piccolo contributo al mondo (…) Sapere che “sono arrivata” al lettore significa aver adoperato bene la scrittura, che è uno strumento pazzesco. Significa dire a me stessa: ho fatto la cosa giusta…
Fare niente, a volte, è fare molto
Poche cose mi sono rimaste di quando frequentavo Architettura.
Mi restano quegli sgabelli traballanti, la calca intorno a tavoli grossi interamente rivestiti di fogli A0 e di mani. I cappotti impilati sul trespolo più audace. Le attese in corridoio per le revisioni, i compagni di gruppo, le scale ricoperte di gomma. La biblioteca con gli ingegneri che venivano a rimorchiare, il…
E se oggi fosse una buona giornata?
Hai dormito poco. E male. Sarà per la tosse, sarà per l’odore di latte che emana dalle tue mammelle, sarà per abitudine, la consuetudine al contatto, questa irrompente forma d’amore: Isabelle ha fatto come al solito, forse un pochino peggio.
Alla fine alle sette e mezzo siete su: lei, tu, tuo marito.
I due più grandi dormono ancora: quando senti Patrick col passo da soldato, una marcia energica sul tappeto del corridoio, arrivare poco dopo, stropicci un ciao Patrick, cerchi di modularlo all’uscita, lì, quando è già in bilico sulle labbra stanche e ti rotola fuori che si capisce che in fondo la dolcezza è una farsa.
Cazzo ti sei già alzato a fare?…
Il viaggio al contrario
Siamo di nuovo in macchina. La sorte ci ha stipati tutti dentro. Prima in una scatola come bestie, la cattiva notizia che tuona fuori, come le auto su questo pavé oltre il cortile. Rimbomba all’interno, orecchi fragili vibrano senza posa. Due buchi per respirare. Un telefono che d’improvviso ha mille significati, un sussulto di parole, immagini, in quel suo suono …
Ritornare
Seduta, di spalle.
Loro giocano con la pasta da modellare. Patrick mi ha battuto quattro volte di fila al memory. Fosse un memory mentale, una gara di ricordi disattesi, vincerei. Sarà che ho dormito poco, al solito. La casa di Milano puzzava di muffa, di chiuso. Il legno secco, le travi, i nodi, li abbiamo lasciati da poche ore. In macchina, tutti e cinque, i visi incollati ai finestrini. Ciao. I nonni…
Gli imperscrutabili
Strana specie, i parenti. Coinquilini di cui conosci inutili abitudini e ignori grandi fatti esistenziali.
Gente con cui mai ti fermeresti a parlare, e cui sei costretta da un legame mai scelto. Persone di cui potresti innamorarti, ma che resistono al veto imposto dal sangue. Destinatari di domande infattibili, di silenzi imbarazzanti, di scambi che svelano intimità possibili. O valichi insuperabili.
Ne ho a bizzeffe, io. Li ritrovo, tutti insieme, di tanto in tanto…
Il bacio del mattino
Ci alziamo tardi. Lui ha spento la sveglia, si è riaddormentato. La sveglia già bassa, sempre più bassa, come quella luce vaga che arriva dallo studio, che una volta si teneva accesa più forte, per le evenienze notturne, il latte di Sarah.
Scivola di là, io rincorro le lancette, guardo. Non scatto su: il lunedì mi arriva addosso come il gas di scarico di una vettura…
Con l’empatia sospinta dal silenzio di questi giorni
Ha avuto le convulsioni.
C’era un capannello di persone intorno, come sempre accade in queste occasioni. Non addosso, non un cerchio di rapaci a fiatare sull’evento più famelici che filantropi: c’erano sì e no una decina di esseri umani, sparpagliati come le nuvole.
“L’ambulanza sta arrivando.”
Una donna anziana si aggrappa alla stampella, vuole “correre” alla Croce Verde di Baggio…